Negli spazi di Villa Zito, a Palermo, la Fondazione Sicilia ricorda i suoi venticinque anni di attività attraverso un’esposizione dedicata a uno degli artisti più apprezzati nella contemporaneità e in Sicilia: Guttuso. La forza delle cose, che nasce dalla collaborazione tra i Musei Civici di Pavia e gli Archivi Guttuso (la prima tappa si è svolta da settembre a dicembre 2016 a Pavia).
Le opere cardine della mostra sono 47 nature morte, che rappresentano il genere prediletto da Renato Guttuso; egli infatti trascorre l’intero periodo della sua attività indagando frequentemente le qualità espressive e cromatiche di una serie di oggetti, che nella sua arte si animano facendosi plastici e vibranti di vita, concordando quindi con i propositi espressi in un articolo del 1933: “Se la pittura non penetra l’oggetto e non ne svela le vibrazioni, se non arriva partendo dall’oggetto e dall’osservazione sentimentale di esso alla creazione di un equivalente plastico dell’oggetto, non si perviene alla poesia, ma si precipita nella fotografia”. Guttuso vuole tracciare con forza una linea di demarcazione tra pittura e fotografia, lasciando intuire che a suo parere le peculiarità pittoriche consentono di prendere le distanze dal freddo mimetismo che l’artista riconosce nell’arte fotografica. Egli vuole lasciar emergere dunque “la forza delle cose”, come indica il titolo dell’evento, sicché le opere scelte per l’esposizione, provenienti da importanti sedi espositive e collezioni private, sono proprio quelle in cui gli oggetti manifestano con più pregnanza la loro “forza”, un’aura carica di atmosfere, aspirazioni, conversazioni (spesso animate), fatiche.
Alcune opere risalgono agli anni ’30 e ’40 e documentano pertanto le condizioni critiche conseguenti alla dittatura fascista e alle guerre; il Cranio di ariete del 1938, infatti, è per Guttuso una traccia mnemonica della guerra di Spagna.
Di sola pittura, di solo colore e materia, vive Gabbia e cappello verde, olio del 1940-41; degli stessi anni è anche Natura morta con lampada, in cui il cranio dell’ariete troneggia su una scrivania tra cose che sembrano disposte con noncuranza, divenendo presenze instabili, inquiete, frettolose, sullo sfondo rosso del grande panno che l’artista utilizza per proteggersi dal freddo e che Fabio Carapezza Guttuso (figlio adottivo) dice essere bandiera della sua iscrizione al Partito Comunista clandestino.
In Un angolo dello studio di via Pompeo Magno, del 1941-42, prendono vita le parole di Carapezza, che afferma: “Entrare nello studio di Renato Guttuso comunicava un’idea di disordine nel quale libri, giornali, tazzine di caffè, posacenere pieni e ancora fumanti, boccette d’inchiostro aperte, pennini intrisi di china erano affastellati sui tavoli, sulle sedie, sulle molte librerie […]. L’artista non nutriva per gli oggetti un rispetto sacrale ma tendeva a non modificarne l’ordine, o sarebbe meglio dire il disordine, con cui li aveva sistemati quando aveva preso possesso dell’ambiente”. Infatti nel dipinto si accatastano pile di libri, canestri, fiaschi, scopa e cestino, a documentare una vita semplice, quotidiana, che distoglie lo sguardo dagli eventi esterni. Oggetti che, come afferma Guttuso, “si promuovono da soli” e “si eleggono da soli come preferiti”1; oggetti che risultano solo dalle campiture di colore, come lo spazio piatto e superficiale che ne consegue, privo di verosimiglianza.
In opere come Natura morta notturna (1948) spazio e figure vengono ulteriormente stravolti divenendo più astratti: gli oggetti sono appena riconoscibili nelle loro forme acute, semplificate e contorte; ivi, come in Finestra (1947) o Bottiglia e barattolo (1948), ravvisiamo una sintesi stilistica di origine postcubista, che discende dall’adesione a movimenti di rinnovamento artistico come la Nuova Secessione Artistica e il Fronte Nuovo delle Arti.
Negli anni ʼ60 Guttuso mostra una disposizione più meditativa e rielabora nei suoi scritti i temi del realismo e dell’informale; lo notiamo ad esempio in Natura morta con fornello elettrico (Tramonto e fornello elettrico, 1961), in cui i colori si fanno più materici e sanguinolenti, mentre le linee più nette e spigolose. E anche qui troviamo “oggetti indispensabili all’artista per badare a se stesso”, come afferma Carapezza descrivendo lo studio dell’artista.
La storica tensione di Guttuso verso l’adesione al reale si accentua dalla metà degli anni ʼ70, quando decide di gettare con più veemenza agli occhi dello spettatore la verità delle cose, come notiamo nell’accatastamento di vetture nell’alienato Cimitero di macchine (1978), nel feroce Bucranio, mandibola di pescecane e drappo nero contro il cielo (1984) o in Teschi sul caminetto (1986), che bene assurgono ad allegorie dell’esperienza umana; macabro anche Teschio e cravatte (1979), in cui l’artista riflette sulla vanitas umana in modo autobiografico, data la presenza delle lettere che formano il suo nome su una lavagnetta visibile sotto le cravatte sparpagliate sulle tegole.
Completano l’esposizione le fotografie – in parte inedite – provenienti dagli Archivi Guttuso e da Rai Teche, che rivelano momenti della vita privata e pubblica di Guttuso, del suo lavoro e dei suoi legami con celebri scrittori, scultori, poeti, registi, musicisti, che hanno anche fornito ispirazioni a dipinti, illustrazioni, scenografie, collaborazioni cinematografiche.