In un rinomato palazzo nobiliare, tra le casupole di un piccolo scrigno che è Ragusa Ibla, si svolge l’esposizione di una collezione di statuine inedite, presenti già in situ da ben due secoli, a cura dello storico d’arte Costantino D’Orazio; è una delle raccolte più ricche delle opere prodotte dalla celebre bottega dei Bongiovanni Vaccaro, che operavano nella seconda metà dell’Ottocento in un fervido distretto ceramico di Sicilia, quello della città di Caltagirone.
La produzione in ceramica dell’impresa aveva riscosso già allora un grande successo proprio grazie a statuine in terracotta dipinta, che in un’ottica naturalistica e descrittiva ritraggono scene di vita quotidiana, animata, di mendicanti, calzolai, mamme alle prese con la loro prole, contadini impegnati con gli animali, fino ai primi rappresentanti della nascente borghesia. Esse illustrano quindi frammenti di vita quotidiana popolare e rurale, quella raccontata da Verga, Capuana, dalle pagine del Gattopardo; una vita che stava già mutando sotto le grandi trasformazioni sociali del tempo.
Le statuine, ricercatissime in Italia e all’estero, sono raccontate in mostra dal punto di vista storico-artistico, antropologico e tecnico, rivelando anche gli aneddoti e le curiosità che si annidano nelle espressioni umane e vive dei personaggi, nei particolari realistici degli abiti e degli accessori. Infatti i calatini Giacomo Vaccaro e il nipote Giuseppe Bongiovanni Vaccaro hanno saputo fotografare con occhi penetranti e spirito documentativo una quotidianità vivace e intensa, che richiama le radici di un popolo e si fa rassicurante, catartica in un presente che appare spesso ben diverso rispetto ad antichi trascorsi.
“Genti di Sicilia”, nata durante il lockdown dell’autunno 2020, fa parte di un progetto che prevede la creazione di un “circuito sulle tracce dei Bongiovanni-Vaccaro”, di cui Ragusa è la prima tappa; da lì saranno coinvolte poi altre città della Sicilia Sud-orientale, con la collaborazione tra istituzioni pubbliche e private.
La mostra ragusana è l’evocazione di un mondo che ancora sopravvive tra l’odore del bucato lindo e appena steso su viuzze strette come intercapedini, in una realtà che pullula tuttora di figure d’altro tempo; come gli “scarpari”, che sistemano anche le calzature più malandate a prezzi stracciati, o i venditori che richiamano i clienti a gran voce nei mercati, magari improvvisando delle parole in rima e in dialetto (“si polli belli vuliti mangiari, ndo zu Pippu lu caddunaru vi l’at’accattari!”[1]); e ci sono gli anziani che siedono sul marciapiede davanti al loro circolo (che reca sempre la vecchia insegna, bellissima e gloriosa, dell’anteguerra) osservando la vita che scorre nella piazza principale del paese, magari godendosi il profumo di una buona pasta al forno che aleggia nell’aria se è domenica. C’è ancora tutto questo in Sicilia e sicuramente non solo lì, perché ogni paese d’Italia ha le sue seducenti peculiarità e i suoi intramontabili costumi.
“Genti di Sicilia” a parere di chi scrive vuole essere un monito per la società di oggi, quello di non abbandonare il passato, di non stravolgere la sua eredità e anzi di riappropriarsene, che siano vecchi quadri, tavolini, arnesi da miniera, o proverbi, aneddoti e mestieri antichi, dove la manualità ancora palpita dirigendone le fila. Dove forse la leggerezza dava ancora respiro all’anima e speranza in un futuro meno incerto di oggi.
[1] Se polli belli volete mangiare, dal signor Peppe “lu cardunaru” li dovete comprare.