Gian Franco Corsi, in arte Franco Zeffirelli, nacque il 12 febbraio 1923 e, per il centenario, il Teatro Regio di Parma sceglie di chiudere la Stagione Lirica 2023 con Pagliacci, opera in un prologo e due atti di Ruggero Leoncavallo nello storico allestimento Maestro fiorentino. La prima è andata in scena venerdì 5 maggio, qui vi riferiamo dell’ultima replica (quella del 14 maggio unica pomeridiana) in una domenica quasi novembrina, con pioggia battente.

Teatro Regio stracolmo in ogni ordine di posto e, in attesa dell’ingresso in sala, anche tante persone che, pur avendo già presenziato a una recita nei giorni precedenti, ma hanno deciso di tornare per assistere nuovamente a questo capolavoro verista.
Per un allestimento straordinariamente sontuoso, celebre per le sue tinte variopinte, per la ricchezza delle scene, per il numero di figuranti, mimi, acrobati e per la vivacità dei costumi, che sposta l’ambientazione della vicenda agli anni Sessanta del Novecento, Franco Zeffirelli aveva così ricordato: “Questa produzione di Pagliacci mi è particolarmente cara e nacque dal mio desiderio di cercare una chiave di lettura contemporanea di quel capolavoro.

Ho scelto una periferia del Sud, con motorini, officine e degrado. Ho voluto tirare Pagliacci ancora di più verso il presente: si dice che sia il capolavoro del Verismo. E sono d’accordo. Ma è anche qualcosa di più: è un’opera in cui si fondono miracolosamente verità e finzione, cronaca ed arte. E dunque è quasi un obbligo riportare all’oggi la cornice cronachistica in cui si muove la vicenda. La gelosia e l’omicidio passionale di Canio sono cronaca di tutti i giorni, valgono sempre”.

Opera verista per eccellenza insieme a Cavalleria rusticana, Pagliacci debuttò il 21 maggio 1892 al Teatro Dal Verme di Milano sotto la direzione di un Arturo Toscanini appena venticinquenne e, da allora, non è mai più uscita dal grande repertorio. Per il libretto, Leoncavallo si ispirò a un fatto di cronaca nera realmente accaduto nel 1865 a Montalto Uffugo, paesino calabrese dove il padre del compositore esercitò per alcuni anni la sua professione di magistrato. In un contesto arretrato e periferico, ma al tempo stesso variopinto e pulsante di vitalità, Canio, il capocomico di una compagnia itinerante, scopre che la moglie Nedda lo tradisce esattamente come nella finzione della commedia che avrebbe portato in scena.

Nel momento in cui sale sul palcoscenico per interpretare la gelosia del personaggio, smarrisce però la percezione del reale e, in un crescendo di ossessione e violenza, finisce per assassinare la moglie e il suo amante, nel raccapriccio del pubblico che solo in quel momento si accorge che la finzione è diventata realtà.

Si spengono le luci e inizia la magia di uno spettacolo indimenticabile, che il tempo non ha minimamente scalfito, ora ripreso da Stefano Trespidi alla regia e Carlo Centolavigna per le scene. I costumi sono di Raimonda Gaetani, storica collaboratrice di Zeffirelli e le luci di Andrea Borelli.
La direzione è affidata ad Andrea Battistoni, sul podio dell’Orchestra dell’Emilia-Romagna Arturo Toscanini, del Coro del Teatro Regio di Parma, preparato da Martino Faggiani, e del Coro di voci bianche del Teatro Regio di Parma, preparato da Massimo Fiocchi Malaspina. Davvero un’ottima lettura come il cast dei solisti.

Mattatore della serata Gregory Kunde che dà la sua voce a Canio, Classe 1954, dalla tecnica inossidabile e uno squillante registro acuto in performance sopra le righe culminate con “Vesti la giubba” alla fine del primo atto con la conseguente standing ovation del pubblico che continua a applaudire gridando al bis fin quando non viene concesso. Il tenore statunitense non si è mai risparmiato, infatti ha sempre eseguito il bis in tutte le rappresentazioni tranne nella seconda. Sempre in crescendo, nel secondo atto, con “No Pagliaccio non son” per la sua esecuzione possiamo scomodare l’aggettivo straordinaria.
Tonio/Taddeo il cattivo, sostenuto dal baritono Vladimir Stoyanov al debutto nel ruolo, già nel prologo “Si può?” sfodera un’esibizione degna di nota con eccellente fraseggio.

Nedda/Colombina è il soprano Valeria Sepe che, in “Qual fiamma avea nel guardo” del primo atto, ha fatto sognare proseguendo sempre ad alto livello.
Peppe/Arlecchino del tenore Matteo Mezzaro nella “Canzone di Arlecchino” stupisce per la sua bravura e, infine, la grazia di Silvio del baritono Alessandro Luongo veramente bravo.

Alla fine dello spettacolo, dove tutto è stato ineccepibile, il pubblico si è lasciato andare con applausi scroscianti e ulteriore standing ovation per Gregory Kunde e chiuderei questo racconto con la frase finale dell’opera “la commedia è finita!”