“Tre carte, tre carte, tre carte!”. È il leitmotiv che ritorna per tutta la Dama di Picche (Pique Dame), il cupo racconto di passione e di avidità, capolavoro di Pëtr Il’ič Čajkovskij accanto all’Onegin.
L’opera è ambientata nella San Pietroburgo del diciottesimo secolo e racconta la vicenda tragica di un giovane ufficiale, Hermann, che è innamorato di Lisa, una nobile fanciulla di stato sociale superiore e per lui inarrivabile. La nonna di Lisa, una vecchia contessa, in gioventù chiamata “Dama di Picche” per la sua passione per il gioco d’azzardo, possiede il segreto di tre carte stregate che garantiscono vincite strabilianti. Lo squattrinato Hermann è assillato dall’idea di carpire la combinazione magica fino a introdursi nella camera della vecchia contessa per strapparle il segreto. La contessa muore durante il tentativo di estorsione, ma appare poi al giovane come spettro e gli rivela la combinazione vincente. Hermann si getta al tavolo verde. All’inizio il gioco d’azzardo è lo strumento per la scalata sociale necessaria per coronare il suo amore per Lisa. Poi però Hermann dimentica del tutto lo scopo originario e diventa prigioniero del demone del gioco fino all’autodistruzione e alla perdita di tutto, l’amore e la sua stessa esistenza.
La nuova produzione dell’Opera di Wiesbaden, firmata da Uwe Eric Laufenberg, mette bene in risalto le ossessioni, le nevrosi e i trasporti sentimentali che alimentano l’oscura parabola di Čajkovskij, ispirata a un racconto di Aleksandr Puškin. Uno spettacolo a tinte piuttosto buie, spesso notturne, incorniciato dagli interni Biedermeier, eleganti e geometrici, disegnati dallo scenografo Rolf Glittenberg. In questa cornice cupa e raffinata la recitazione accurata dei protagonisti rimanda tutto il tormento psichico dell’opera di Čajkovskij. E si ammirano gli splendidi abiti dell’alta società russa, gentildonne in lungo e nobiluomini in smoking, preparati di Marianne Glittenberg. Ci si può invece interrogare sul valore aggiunto delle scene di nudo piuttosto spinto, come nell’intermezzo pastorale del secondo atto. E quando la Zarina appare statuaria e con solo un mantello bianco argenteo sulle spalle, si rimane un po’ perplessi. Comunque uno spettacolo molto curato e compatto che coinvolge il pubblico per l’intera recita.
Alla felice riuscita della serata contribuisce la direzione misurata di Oleg Caetani che, senza furori eccessivi, fa risaltare la compattezza e le raffinate melodie della partitura di Čajkovskij. Il direttore ha ai suoi comandi un cast di livello. Aaron Cawley rimanda gli accenti di Hermann, un personaggio byroniano, un outsider che come Onegin mal si adatta alle convenzioni sociali. È un ruolo vocalmente ostico, a tratti da Heldentenor sempre in scena, in cui il tenore irlandese si destreggia con bravura, dando il meglio di sé nella scena finale della follia. Elena Bezgodkova disegna una Lisa, la giovane che seguirà Hermann fino all’autodistruzione, di forte impatto drammatico. Il soprano russo dispiega vocalità ampia e cristallina e nella scena finale del suicidio ci fa apprezzare tutta la carica emotiva dello spartito di Čajkovskij.
Eccellenti i comprimari. Il baritono Benjamin Russell interpreta con eleganza e bel timbro il nobile Jeletzki. La sua aria “Ja vas lyublyu”, proposta con trasporto e bella intonazione riscuote gli applausi della platea. Silvia Hauer canta Polina con voce educata e sfumature scure; la sua interpretazione della canzone popolare del secondo atto è uno dei momenti alti della serata. Almas Svilpa è un Tomsky navigato e fascinoso che si fa apprezzare per la sua ballata iniziale, mentre Romina Boscolo sfoggia grande espressività nel ruolo della Contessa, la Dama di Picche, sospesa fra i ricordi di un passato ruggente e le malinconie della vita al tramonto.
Alla fine applausi per tutti dalla platea assai diradata dalle norme anti pandemia.