A Parma per assistere all’ultima delle quattro recite di Anna Bolena, titolo assente dal lontano 1977, una coproduzione del Teatro Regio con il Teatro Carlo Felice di Genova. Due atti su libretto di Felice Romani – ispirata al dramma Henri VIII di Marie Joseph de Chénier, e messa in musica da Gaetano Donizetti – è la prima opera della della cosiddetta trilogia inglese, insieme a Maria Stuarda e Roberto de Devereux, e rappresenta una delle vette più alte della produzione operistica del compositore bergamasco e dell’opera romantica in generale.
Il debutto avvenne a Milano, al teatro Carcano il 20 dicembre 1830, con i grandi divi di allora: il soprano Giuditta Pasta, il tenore Giovanni Battista Rubini e il basso Filippo Galli. Già nell’anno successivo debuttò sia a Londra che a Parigi aprendo a Donizetti le porte dei grandi teatri europei, ma, nonostante il successo iniziale, l’opera uscì gradualmente dal repertorio. Poi, dopo 113 anni di assenza dalle scene italiane, fu ripresa alla Scala nel 1957 con la regia di Luchino Visconti e un cast da manuale: Callas, Simionato, Raimondi e Rossi Lemeni e la direzione di Gavazzeni. Con una memorabile interpretazione Maria Callas le donò una seconda vita tanto che l’opera tornò ad essere rappresentata nei maggiori teatri del mondo.
La messa in scena di questa nuova produzione è firmata da Alfonso Antoniozzi. Dopo aver dato tanto all’opera come cantante, di recente, si è affacciato al mondo della regia dove lo abbiamo apprezzato in Traviata a Bologna e lo scorso anno nel Devereux a Genova solo per citare alcuni lavori.
Antoniozzi illustra come la sua Anna Bolena sia: “la storia di un potere sognato, fortemente desiderato e infine raggiunto da una donna che, realizzato il proprio sogno e consumate le proprie vendette, si ritrova senza l’amore. Ci siamo sforzati di teatralizzare le sue paure e le sue ossessioni, e di rendere il più veri possibile i personaggi creati da Romani e Donizetti e facendo il possibile per restituire umanità a figure storiche alle quali è stato già applicato un giudizio definitivo nella nostra memoria collettiva. Ci è sembrato funzionale a questo discorso l’aver spogliato la scena e i costumi di ogni orpello pre-elisabettiano avvicinando la narrazione al nostro tempo pur mantenendola il più possibile distaccata da noi, in un ambiente di difficile collocazione temporale, che ha tuttavia dei precisi richiami agli anni Quaranta”.
Sempre il Regista, spiega la presenza degli otto mimi sul palcoscenico per rappresentare “le ossessioni i desideri le paure di Anna e di Enrico; le donne quelli di Enrico, gli uomini quelli di Anna. Gli uomini compongono un trono di carne, un po’ perché mi faceva piacere che Anna sedesse su di un trono fatto delle sue paure delle sue ossessioni e dei suoi desideri, e un po’ perché è un trono necessariamente instabile e questo ha aiutato a la precarietà della figura di Anna come Regina all’interno della corte e dell’Inghilterra.”
Mimi sempre presenti in scena in un’ambientazione sobria senza i broccati e i velluti dello stile Tudor, grazie ai meravigliosi e semplici costumi di Gianluca Falaschi. Scene e video designer curate da Monica Manganelli sono efficaci ed eleganti come le luci di Luciano Novelli. Di forte impatto l’idea del trono di Anna in contrapposizione della solidità di quello di di Enrico, sempre nella parte più alta, ma distaccato da tutto e da tutti. Un plauso anche ai movimenti coreografici di Sergio Paladino. Efficace la scelta di Antoniozzi di focalizzare sulle due donne e i loro sentimenti nei confronti di chi, il potere, gli garantisce tutto.
Fabrizio Maria Carminati dirige l’Orchestra Regionale dell’Emilia Romagna con esperienza in una partitura non certo tra le più facili e il Coro, diretto da Martino Faggiani, esegue da manuale lo spartito in una bella prova come quelle dei teatri blasonati e con più risorse economiche. Sul fronte della compagnia di canto la soprano Yolanda Auyanet è un’Anna a tutto tondo, momenti indimenticabili soprattutto nel secondo atto, nella scena della prigione, ma è nel finale che ha dato il meglio.
Enrico VIII, il basso interpretato da Riccardo Zanellato, sostituendo Marco Spotti indisposto, sia scenicamente che a livello vocale, è un Re da tener presente per la voce possente e l’elegante fraseggio. Giovanna, interpretata dal mezzosoprano Sonia Ganassi, è stata molto brava. Da apprezzare particolarmente perché, nonostante alla fine del primo atto le sue condizione di salute non fossero al meglio (l’intervallo è durato più a lungo), ha scelto di continuare per il pubblico cavandosela egregiamente e portando al termine la recita con successo. Tengo ad esprimere un ringraziamento per la grande professionalità.
Lord Riccardo Percy, interpretato dal tenore Giulio Pelligra, che ha sostituito fin dalla prima Maxim Mironov, ha fornito una buona prestazione con un bel timbro vocale e Paolo Battaglia (Lord Rochefort) non è stato da meno. Una lode al mezzo soprano Martina Belli, nella parte scritta per contralto, il Smeton il Paggio della regina, è la rivelazione di questa produzione per la voce elegante e raffinata e che spero riascoltare presto in tanti teatri. Non per ultimo Hervey, interpretato dal tenore Alessandro Viola, molto bravo.
Alla fine calorosi applausi per tutti e la consapevolezza di aver assistito a un bello spettacolo.