
Andando espressamente per teatri lirici alla ricerca, spesso avete letto il termine “gemma rara” però, questa volta, lo è oggettivamente l’Amleto, tragedia lirica in quattro atti del compositore e direttore veronese (sconosciuto a molti) Franco Faccio su libretto del padovano Arrigo Boito. Quindi, viaggio irrinunciabile nella città scaligera che gli ha reso omaggio con un ritorno in scena in Italia, dopo oltre un secolo e mezzo, in edizione critica e spettacolo inedito. Un titolo che ha avuto una storia travagliata non solo al suo nascere, ma anche nel Ventunesimo secolo quando, pronto per il debutto nella primavera 2020, venne cancellato per la pandemia. Da allora, melomani e appassionati, hanno iniziato il conto alla rovescia e, alla prima dello scorso 22 ottobre, è stato accolto da applausi a scena aperta con oltre otto minuti di ovazioni finali.
Però, prima di raccontare quanto assistito all’ultima replica è indispensabile storicizzare ricordandone la première del 30 maggio 1865 al Teatro Carlo Felice. Al riguardo, il giorno seguente, nella Gazzetta di Genova si poteva leggere: «L’opera è stata generalmente applaudita alla fine del primo atto, dopo il duetto tra Amleto e Ofelia, nel finale del secondo atto, nella canzone di Ofelia nel terzo e durante la marcia funebre del quarto. Il giovane maestro (Faccio) è stato chiamato alla ribalta diverse volte». Una proposta nuova per la metà degli anni Sessanta dell’Ottocento di due coraggiosi compagni di studi al Conservatorio di Milano e successivamente a Parigi, guide della giovane Scapigliatura musicale., quando il panorama musicale italiano era dominato da Giuseppe Verdi e, alla sua ombra giovani compositori tentavano nuove vie per il melodramma.

Anagrafica alla mano, un venticinquenne Faccio (dopo il debutto scaligero con I profughi fiamminghi su libretto di Emilio Praga, che aveva debuttato l’11 novembre 1863 diverrà un apprezzato compositore che si affermò come direttore d’orchestra diffondendo il repertorio sinfonico in tutta Italia e presentando, spesso in prima assoluta, le più importanti opere del secondo Ottocento); addirittura due di meno per Boito alla prima esperienza operistica di livello poi, nel 1868, trionferà alla Scala con la sua opera Mefistofele, verrà ricordato come maggior librettista dell’epoca e autore degli ultimi due testi verdiani (Otello e Falstaff).
Caratteristica comune dei due musicisti, come al poco più maturo Amilcare Ponchielli, era la ricerca di maggior fusione fra teatro e musica, realizzabile col superamento dei cosiddetti “numeri chiusi” in favore di una continuità narrativa, non poco influenzata dalla scoperta delle coeve opere di Wagner.

Con raffinata strumentazione, slanci melodici e brani tradizionali alternati a innovative scene e declamati come La Gioconda e il già citato Mefistofele, l’ambiziosissimo e complesso Amleto si colloca in questa transizione fra sperimentazioni letterarie e musicali, compromessi fra tradizione italiana e innovazioni ispirate alla scena franco-tedesca del periodo. Nonostante tali innovazioni e originalità di estrema varietà linguistica e formale, l’Amleto resta, comunque, una delle massime tragedie shakespeariane e fu accantonata per alcuni rimaneggiamenti fino all’unica, sfortunata, ripresa alla Scala del 12 febbraio 1871. L’autore, che già eccelleva come direttore d’orchestra, ritirò subito la partitura e si oppose ad ogni richiesta di rappresentare l’opera.

Un oblio che durò ben dopo la sua prematura scomparsa, fino al 2014, quando il direttore statunitense Anthony Barrese ne curò un’edizione per Ricordi e l’esecuzione a Baltimora (in concerto) e ad Albuquerque (in forma scenica). Amleto rimise piede in Europa per il quarto centenario shakespeariano a Bregenz nel 2016 (immortalato anche in disco e video) e ora, ha finalmente fatto ritorno “a casa” nella nuova produzione di Fondazione Arena di Verona firmata da Paolo Valerio, direttore del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, profondo conoscitore di prosa e poesia di Shakespeare, già direttore del Teatro Stabile di Verona fino al 2021 che ha affermato «Verona e Shakespeare costituiscono un connubio inesauribile che, grazie alla sensibilità di Fondazione Arena, si arricchisce di questo nuovo e originale progetto, il recupero di un piccolo gioiello operistico, scritto da un veronese e per la prima volta rappresentato in Italia. Per me una bellissima prima esperienza nel mondo della lirica. Amleto è un’opera molto affascinante, dove i protagonisti shakespeariani sono delineati con grande fedeltà e la musica evoca con forte suggestione lacerazioni e passioni. Il mio primo compito è stato proteggere ed enfatizzare il valore di questa musica e di questo libretto, per scoprire e stupirsi di questo giacimento culturale della nostra città».

Scene e projection design sono state create da Ezio Antonelli, i costumi da Silvia Bonetti, le luci da Claudio Schmid.
Il Coro di Fondazione Arena è stato diretto dal maestro Roberto Gabbiani, mentre il podio dell’Orchestra areniana è affidato a Giuseppe Grazioli, apprezzato direttore d’orchestra particolarmente attivo nel recupero di autori italiani meno noti tra Ottocento e Novecento. Il Maestro ha illustrato le peculiarità dell’opera rilevando «colori strumentali inediti, registri vocali portati ai limiti della tessitura, recitativi bisbigliati a velocità quasi eccessiva per dare più realismo a certi passaggi, ricerca di una spazialità che circonda lo spettatore… sono solo alcuni degli ingredienti che fanno di Amleto un’opera difficilmente paragonabile a ciò che esisteva prima e che era forse troppo “bizzarra” per fare da modello per le generazioni successive. Per noi oggi, uno splendido esempio della varietà e della ricchezza del nostro melodramma».

Sin dall’apertura del sipario si nota come, in effetti, lo spettacolo sia ben concepito su un’impianto fisso, pochissimi elementi scenici, ma luci, proiezioni e tendaggi trasparenti creano una ambientazione da favola. Ogni atto è suddiviso in due parti e risulta vincente l’idea di proiettare la partitura dell’opera autografa all’inizio di ognuna come se la musica entrasse in teatro per avvolgere il pubblico.
La direzione del maestro Giuseppe Grazioli è convincente anche per l’apporto di Orchestra e Coro, ma è la scelta della compagnia di canto, tutta italiana, a fare la differenza. Amleto, il tenore Angelo Villari che, con ottimo fraseggio, una voce ampia e proiettata, dà smalto al personaggio anche scenicamente.

Ofelia, cantata dal soprano Eleonora Bellocci, ci emoziona, sempre precisa e soprattutto convincente.
Il re, del baritono Damiano Salerno, oltre a cantare magnificamente riesce anche a recitare in maniera perfetta la parte del sovrano usurpatore con i suoi sensi di colpa.
Gertrude, del soprano Marta Torbidoni, con la sua voce ambrata e cupa è perfetta per il personaggio di madre e regina.
Un discorso a parte è quello dei quattro bassi: Francesco Leone (Polonio), Alessandro Abis (Orazio), Davide Procaccini (Marcello) e Abramo Rosalen (Spettro) tutti con vocalità diverse, ma bravissimi.
Apprezzato Laerte del tenore Saverio Fiore. Molto bravi anche gli altri.

Alla fine dello spettacolo, durato tre ore, grandissimi applausi per tutti con la speranza che questa opera, caduta nell’oblio, possa entrare nel cartellone dei teatri.