Penultima replica questa sera a Firenze de L’amico Fritz, opera di Pietro Mascagni, ultimo titolo operistico della stagione prima dell’inizio della 84ᵃ edizione del Festival del Maggio Musicale. Commedia lirica in tre atti rappresentata senza intervalli e messa in scena dopo ottantuno anni in quanto, per le stagioni del Maggio, rappresentata solo in due precedenti occasioni: la prima nel 1939, la seconda nel 1941 diretta dallo stesso Pietro Mascagni con la regia di Celestino Celestini.
Dopo il successo di Cavalleria rusticana, Pietro Mascagni già pensava a nuovi soggetti da mettere in musica. L’iniziale progetto de I Rantzau, ispirato a un romanzo di Emile Erckmann e Alexandre Chatrian, venne momentaneamente accantonato per L’amico Fritz, una commedia sentimentale dei medesimi autori caldeggiata dall’editore Sonzogno che già ne aveva ordinato la riduzione librettistica ad Angelo Zanardini.
Però, il libretto approntato da Zanardini, non piacque al compositore rendendo necessario l’intervento del letterato Angelo Daspuro prima, e dei fidati Guido Menasci e Giovanni Targioni-Tozzetti poi. Mascagni iniziò a lavorarci nell’inverno del 1891 completandola in tempo per il debutto al Teatro Costanzi di Roma il 31 ottobre dello stesso anno. Il successo della prima rappresentazione tuttavia non salva L’amico Fritz da un destino accidentato fatto di pareri e giudizi contrastanti. Primo fra tutti quello di Giuseppe Verdi, che biasimò le troppe dissonanze, i continui cambiamenti di tempo in partitura e stroncò il libretto.
Va detto come Mascagni avesse deliberatamente scelto il soggetto dell’Amico Fritz, dove l’azione è pressoché inconsistente, proprio per far risaltare la sua musica. Una musica fresca, dai toni affettuosi e adatta ai buoni di cuore – come la definì lui stesso – che tratteggia con mano leggera il piccolo idillio amoroso di Fritz Kobus, scapolo impenitente del paese, e dell’incantevole Suzel, figlia del suo fattore che lo farà innamorare. Sulla struttura musicale, il Maestro Riccardo Frizza – tornato al Maggio dopo aver diretto le recite di Rigoletto di Giuseppe Verdi dello scorso ottobre – ha spiegato quanto importante sia stato il lavoro musicale del compositore livornese, soprattutto in relazione al libretto stesso dell’opera: “Lavorando su un libretto ‘debole’ da un punto di vista drammaturgico ci si cimenta in tante novità musicali: ci sono moltissimi cambi di tempo, melodie che si ripetono spesso con accenti spostati. È davvero un’opera di sperimentazione, che porta con sé alcune melodie che poi verranno in futuro riprese da Giacomo Puccini nella Manon Lescaut e addirittura ne La Bohème”. Continuando nella sua analisi, Riccardo Frizza ha inoltre parlato del lavoro svolto con la regista, Rosetta Cucchi: “Rosetta è una musicista e questo fa sì che riesca a riconoscere tutte le sfumature musicali dell’opera, riuscendo a costruire un’esibizione molto piacevole basata sulla musica: lo spettacolo è ambientato a New York prima e in una tipica winery americana poi; la messa in scena è molto ben congegnata, con cambi di scena rapidi e consente, in uno spazio contenuto, di mettere in relazione tutti i personaggi”.
Rosetta Cucchi – che ricordiamo per la regia di Risurrezione di Franco Alfano del gennaio 2020 – ha sottolineato: “Ci siamo messi davanti alla sfida di mettere in scena, quasi in modo cinematografico, questo spettacolo nel nuovo auditorium. L’ Amico Fritz risponde al dettame Calviniano che la leggerezza è non avere pesi nel cuore. Quest’opera è così: e nonostante il libretto sia molto semplice, quasi banale, questa banalità riesce a sposarsi perfettamente con la musica di Mascagni, aiutando a trasmettere questa sensazione di leggerezza. Abbiamo ambientato l’opera in questo tipico bar americano, di proprietà del protagonista Fritz, frequentato da tutta la comunità ebraica e non, dove possiamo trovare quasi tutti gli stereotipi classici da bar: dai clienti abituali ai giocatori d’azzardo. Qui l’altra protagonista, Suzel, che gestisce la proprietà di campagna dello stesso Fritz, viene per poter dare al protagonista i vari resoconti sull’andamento della vigna. Lei soprattutto all’inizio si sentirà quasi ‘sperduta’ in questa fetta così moderna di città, rispetto alla campagna dove è cresciuta: ma a differenza di molte storie, come in Io e Annie di Woody Allen ad esempio dove si raccontano le ragioni della fine di un amore, in questa storia si racconta l’inizio dell’amore: i primi passi che ognuno dei protagonisti farà per raggiungere l’altro. In tutto questo c’è David: un rabbino che si prende sul serio (ma non troppo) e che quando declama i suoi sermoni finisce sempre per auto-ironizzare su sé stesso; in relazione anche all’importanza che l’autoironia ha nella comunità ebraica. In questa produzione abbiamo davvero giocato con noi stessi e con la storia che racconteremo.”
Un folto pubblico di melomani è giunto a Firenze per assistere alla terza recita, quella domenicale, delle cinque previste di questo elegante allestimento dove l’azione è spostata dall’Alsazia in un un bar di New York anni Ottanta (primo e terzo atto) e nelle campagne di una fattoria, in mezzo ai vigneti, nel secondo atto. Spicca la cura dei dettagli di costumi e scene di Gary Mc Cann con le luci utilizzate al meglio da Daniele Naldi.
Ottima la lettura del maestro Riccardo Frizza, ogni suono è cesellato, Orchestra e Coro sono un tutt’uno in crescendo che raggiunge l’apoteosi nell’intermezzo in una sala dove, in religioso silenzio, il pubblico è rapito dalla musica per poi esplodere nella standing ovation.
Il Coro, diretto dal maestro Lorenzo Fratini, è un’eccellenza assoluta del Teatro.
Ottima la compagnia di canto partendo dal tenore Charles Castronovo nei panni Fritz, una star internazionale al debutto fiorentino. La sua voce, fin dall’inizio solida e sicura, ha un bellissimo colore raggiungendo altissimi livelli nel terzo atto, nella romanza “Ed anche Beppe amò“.
Salome Jicia (soprano) è Suzel capace di incantare fin dall’inizio del primo atto in “Son pochi fiori” per poi sbalordire, insieme a Fritz nel famoso duetto delle ciliegie “Suzel , buon di…” dove le voci, senza esagerazioni, si librano e volano in un connubio perfetto. La magia arriva nel terzo atto nel duetto “Ah ditela per me quella parola” con una ulteriore standing ovation del pubblico.
Teresa Jervolino (mezzosoprano) è Beppe lo zingaro, veramente un lusso averla in questo ruolo e, nel primo atto in “Laceri miseri” e nel terzo in “O pallida che un giorno mi guardasti“, ha regalato una performance da ricordare.
Massimo Cavalletti (baritono) ha dato a David il rabbino una voce baritonale dal volume importante.
Molto bravi anche Dave Monaco (tenore) Federico, Francesco Samuele Venuti (basso) Hanezo e Caterina Meldolesi (soprano) Caterina.
Alla fine dello spettacolo grandi applausi per tutti e moltissime chiamate anche per Rosetta Cucchi in un pomeriggio all’insegna di un’opera raramente rappresentata, con la speranza che i nostri teatri riscoprano sempre più spesso capolavori dimenticati.