La miglior produzione operistica agli Olivier Awards 2022, il capolavoro del realismo slavo Jenůfa, di Leoš Janáček, nella messa in scena del regista Claus Guth – al suo debutto all’Opera di Roma – è andato in scena al Costanzi dal 2 al 9 maggio, in un nuovo allestimento realizzato in coproduzione con la Royal Opera House di Londra, dove debuttò nel 2021 ottenendo il prestigioso riconoscimento. L’opera è il terzo tassello del progetto triennale dell’Opera di Roma dedicato a Leoš Janáček, inaugurato con Káťa Kabanová nella stagione 2021/2022 e proseguito con Da una casa di morti lo scorso anno. Capolavoro del realismo musicale di primo Novecento, Jenufa è l’opera più nota del compositore ceco. Scritta tra il 1894 e il 1903, è tratta dal dramma naturalista di Gabriela Preissová Její pastorkyňa [La sua figliastra]. Lo stile musicale di Jenůfa è il risultato dello studio che, per tutta la sua vita, Janáček dedicò alle inflessioni della lingua parlata cèca. La prima rappresentazione avvenne al Teatro Nazionale di Brno il 21 gennaio 1904, al Teatro Costanzi, quasi mezzo secolo dopo, il 17 aprile 1952.
La trama ruota attorno a Jenůfa, figlia adottiva di Kostelnička, sagrestana della chiesa di un paesino della Slovacchia morava. Rimasta incinta dell’amante Števa, viene sfregiata da Laca, innamorato di lei e geloso della sua relazione. Costretta a nascondersi in casa di Kostelnička per la vergogna della maternità illegittima e rifiutata da Števa per la ferita che ora porta sul volto, viene poi ingiustamente accusata di infanticidio dopo che Kostelnička, a sua insaputa, uccide il bambino per paura che questo possa impedirle di sposarsi con Laca, ancora innamorato di lei e pentito. Alla scoperta del cadavere, la matrigna confessa il crimine, ma Jenůfa la perdona, accettando le nozze con Laca.
Claus Guth, spiega: «Jenůfa è la storia di una donna che lotta per un mondo più libero. Una realtà che non presenta vie d’uscita. In scena non ci sono porte, non ci sono aperture. Costante, nell’opera, è il rumore della ruota del mulino, un ritmo ripetitivo, che non cambia mai. La società è questa macchina rituale che ripete i suoi movimenti all’infinito e che distrugge tutto ciò che incontra. L’opera mostra come un’enorme pressione sociale verso il conformismo possa portare alla completa caduta di un outsider, di qualcuno che sta fuori dalla norma».
Lo spettacolo di Claus Guth e del suo team trae bellezza da un minimalismo elegante: poche cose e massimi dettagli di un impianto fisso, un contenitore senza porte di uscita dove tutti i personaggi sono prigionieri della scatola scenica. Significative, a ogni aprirsi del sipario all’inizio dei tre atti, le insormontabili palizzate di legno. Sullo sfondo di una chiusa comunità rurale, due donne lottano per realizzarsi, per sopravvivere allo schiacciante peso degli obblighi sociali e alla violenza che le circonda; il pluripremiato regista abbandona l’estetica realista in favore di un allestimento simbolico.
Come detto altissime mura di legno delimitano la scena, isolando i personaggi e definendo la società rurale come un claustrofobico e immobile microcosmo. Al di fuori, quello che Guth definisce come «l’Altro sconosciuto», un luogo impossibile da raggiungere per le protagoniste del dramma. Jenůfa è una vicenda in cui si intrecciano onore, amore e violenza, e in cui i destini di una giovane e della sua matrigna sono condannati a ripetersi, come in una maledizione.
Sul podio uno dei più apprezzati interpreti della musica di Janáček, il direttore slovacco Juraj Valčuha, anche per lui si tratta del debutto al Costanzi. Insignito nel 2018 del Premio Abbiati della critica musicale, l’attuale Direttore Musicale della Houston Symphony Orchestra, noi fiorentini abbiamo potuto apprezzarlo al Teatro del Maggio ancora giovanissimo seguendo la sua crescita da Berlino a Dresda, da Londra a New York, dal San Carlo alla Scala. Nitidissimo il ricordo della sua direzione del 2015 a Bologna, quella Jenůfa fu un successo con interminabili chiamate sul palcoscenico.
Presenti alla terza recita di cinque, durante il viaggio commentavamo come, sulla carta, fosse uno di quegli spettacoli assolutamente imperdibili e, la realtà è andata oltre le aspettative per la lettura, teatrale quanto drammatica, fin dall’inizio. Ma è nel secondo atto – musicalmente straordinario – che Orchestra, Coro e cantanti hanno dato il meglio per proseguire poi con un inizio terzo atto da brividi.
Nonostante i personaggi in scena siano tantissimi, le interrelazioni hanno funzionato perfettamente con un cast del canto che annovera, nel ruolo della protagonista, Cornelia Beskow – soprano svedese al debutto al Teatro Costanzi – con voce penetrante e struggente. Bravi entrambi i tenori: Charles Workman (Laca) e Robert Watson (Števa) anche lui al debutto al teatro capitolino. Il mezzosoprano Manuela Custer, sempre una garanzia, lo conferma anche nella parte della vecchia Buryjovka. Ancora un debutto romano, il soprano finlandese Karita Mattila, nel ruolo di Kostelnička, sfodera le capacità di attrice unite a quelle di raffinata cantante, in una parte che conosce bene per averla sostenuta su numerosi palcoscenici mondiali. Molto bravi anche tutti gli altri cantanti in questo spettacolo, dove è particolarmente rilevante la sintonia tra orchestra e palcoscenico.
Alla fine delle tre ore di musica grandissimi applausi per tutti gli artisti e standing ovation per il direttore d’orchestra (sempre acclamato a ogni rientro degli intervalli).
Confidiamo di poterlo riascoltare in altri teatri Italiani sul podio di opere di Leoš Janáček o in altre partiture rare.
Sì, è stata una esperienza significativa.