Narra la leggenda che nella città di Calcedonia in Bitinia (l’odierno quartiere stambuliota di Kadıköy), durante le persecuzioni contro i cristiani ordinate da Diocleziano, la giovanissima Eufemia, fanciulla quindicenne di nobili origini, venne condannata ad essere sbranata dai leoni per aver rifiutato di compiere sacrifici agli dei pagani. Secondo la tradizione, i leoni la uccisero, ma dopo averle azzannato la mano destra lasciarono intatto il resto del corpo. Il culto di Sant’Eufemia si diffuse in Oriente, e nella chiesa che era sorta sul luogo del martirio si tenne nel 451 il Concilio di Calcedonia, che segnò l’inizio dell’epoca degli scismi, destinati a scatenare secoli di sanguinosi conflitti.

Nel IX secolo il sarcofago con il corpo della santa scomparve da Costantinopoli, trafugato dalla chiesa fatta costruire dall’imperatore Costantino III, per ricomparire misteriosamente in Istria, sulla spiaggia di Rovigno. A seguito di quello che fu considerato un miracolo, Sant’Eufemia venne dichiarata patrona della città, e le sue reliquie sono tuttora custodite nel duomo a lei dedicato. Per molti versi misteriosa appare anche la vicenda dell’arrivo della statua in pietra dipinta raffigurante Sant’Eufemia ad Irsina (nome attuale di quella che fu, fino alla fine dell’Ottocento, Montepeloso), la cittadina della Basilicata nella quale sono custodite anche le reliquie del braccio della santa.

L’avventuroso viaggio compiuto dalla statua e da altre opere d’arte alla volta di Irsina fu narrato alla fine del XVI secolo dall’arcidiacono di Montepeloso, Pasquale Verrone, nel poemetto Vita divae Euphemiae Virginis et Martyris, casualmente ritrovato alla fine degli anni Ottanta del Novecento: un racconto dettagliato e avvincente del viaggio intrapreso da Roberto de Mabilia, originario di Montepeloso, che nel 1454 tornò al paese natio al culmine di una brillante carriera, durante la quale aveva accumulato una notevole ricchezza come prelato e notaio nella città di Padova.

Il De Mabilia si imbarcò a Venezia con un prezioso carico di opere d’arte che comprendeva, oltre alla statua, sculture e codici miniati, due dipinti di Mantegna – la Sant’Eufemia del 1454, oggi al Museo di Capodimonte a Napoli, e una Dormitio Virginis di cui si sono perdute le tracce – oltre al prezioso reliquiario con il braccio della santa. Quest’ultimo si rivelò provvidenziale: quando la nave fu investita da una tempesta, il turbinio di onde e raffiche di vento fu prontamente sedato dall’ostensione del reliquiario stesso.

Nel Settecento, quando per alloggiare la statua della santa fu realizzata una nicchia rivestita di marmo grigio nella cappella a destra dell’altar maggiore, si procedette a una scalpellatura della sommità del capo per fare posto a una corona d’argento, poi rimossa. La Santa Eufemia è stata pubblicata per la prima volta nel 1996 da Clara Gelao, all’epoca Direttrice della Pinacoteca Provinciale di Bari, che l’ha “proposta – a motivo dei forti caratteri mantegneschi del panneggio e della struttura del viso, largo e con zigomi alti, del tutto simili nella santa Giustina del polittico di San Luca ora a Brera – quale rarissima testimonianza dell’attività scultorea di Andrea Mantegna“.

Al di là dell’inevitabile dibattito sull’attribuzione – che ha visto dividersi gli storici dell’arte in due fazioni, a favore e contrari all’ipotesi mantegnesca – resta l’incanto di un’opera di altissima qualità che cattura l’attenzione di tutti coloro che entrano nel duomo di Irsina: in fondo alla navata, la figura della santa sembra andare incontro ai visitatori con passo leggero, stringendo al petto il simulacro del castello di Montepeloso, arroccato sulla sommità di una rupe selvosa, mentre la mano destra è abbandonata con noncuranza nella bocca del leone, quasi tenesse per un lembo una stola di pelliccia scivolata giù dalla spalla, tanto l’animale appare docile e mansueto.

La Sant’Eufemia di Irsina si colloca in quella straordinaria fioritura che caratterizzò la scultura nella prima metà del Quattrocento, quando la rivoluzione iniziata da Donatello indicava la strada a una serie di personalità di primo piano, in Toscana e altrove: Mino da Fiesole, Desiderio da Settignano e Antonio Rossellino, con gli incantevoli, eterei e trasognati volti di Madonne adolescenti, fino al palpito irripetibile delle mani che la Dama col mazzolino di Verrocchio incrocia sul petto. Luca della Robbia, che trasse da un materiale povero come la terracotta smaltata figure piene di contenuta tenerezza, modellando forme fluide e corpose al tempo stesso; la scuola senese, nella quale le tracce di austero linearismo gotico presenti nelle opere di Francesco di Valdambrino e Domenico di Niccolò si scioglieranno nelle carnosità e nel gonfiarsi dei panneggi che animano le figure femminili di Iacopo della Quercia.

Al nord, tra gli allievi e collaboratori di Donatello, Nanni di Bartolo, che da Firenze si trasferì a Venezia, lavorando alla decorazione del Palazzo Ducale, mentre Niccolò Baroncelli, attivo a Padova nel cantiere donatelliano, introdusse il linguaggio figurativo del maestro alla corte estense, portando con sé gli effetti luministici in senso drammatico mutuati dalla lezione donatelliana, come nel gruppo in bronzo con la Crocifissione per il Duomo di Ferrara. E al sud Francesco Laurana, arrivato a Napoli a metà del Quattrocento dalla Dalmazia, la terra dove secondo la leggenda approdarono le spoglie di Sant’Eufemia, infondeva a forme raccolte e sintetiche un’emozione trattenuta e forse proprio per questo più intensa, come nelle due Madonne con Bambino scolpite nel periodo in cui fu attivo in Sicilia.

Personalità diverse, la cui produzione copre quasi un intero secolo, ma accomunate dalla ricerca di un naturalismo che oscilla tra un clima di empirea serenità, al di là delle umane passioni e l’intensità di un pathos che si vela a tratti di accenti drammatici. Una galleria in cui la Sant’Eufemia di Irsina si inserisce a pieno diritto, restando custode del proprio mistero.