Fino al prossimo 11 febbraio, in una Bologna sempre più fervente di mostre ed eventi culturali, Palazzo Albergati ospita la mostra Duchamp, Magritte, Dalì. I rivoluzionari del ‘900.
In scena è la sorprendente collezione dada e surrealista dell’Israel Museum di Gerusalemme, frutto di importanti lasciti tra le quali spicca il nucleo di oltre 700 opere donate da Arturo Schwarz docente, poeta e scrittore nato ad Alessandria d’Egitto da madre italiana e padre tedesco. Schwarz durante la sua vita romanzesca rimane folgorato dalla lettura del Manifesto di Breton, tanto che nei primi anni Quaranta gli invia le proprie poesie ricevendo in cambio un incoraggiamento a continuare. È quello il momento in cui decide di entrare nel gruppo surrealista, conoscendo artisti del calibro di Duchamp ed Ernst, ed iniziando a collezionarne le opere.
La selezione di 180 opere proposte a Bologna, tra nomi noti e piacevoli scoperte meno scontate, racconta l’anima di due movimenti, Dada e Surrealismo, che hanno rinnovato in modo indelebile la concezione artistica moderna.
Articolata per temi la mostra definisce i nodi chiave delle due correnti, raccontando tecniche eterogenee e innovative (readymade, assemblaggi, fotomontaggi, collage), soggetti onirici, accostamenti inusuali e inaspettati.
L’allestimento è pensato dalla celebre archistar Oscar Tusquets Blanca, amico di Dalì che in occasione dell’evento bolognese ha riprodotto in mostra la celebre sala – volto dell’attrice Mae West, realizzata dall’artista nel museo a lui dedicato a Figueres.
Aprono il percorso gli “accostamenti sorprendenti”, esplorando l’uso di materiali trovati e riutilizzati dal punto di vista artistico, frammenti del mondo quotidiano combinati in modo inatteso per scioccare e disorientare. Per questo non poteva mancare il primo readymade, la Ruota di bicicletta pensata da Duchamp nel 1913 (in mostra la replica del 1964): fuori stava per scoppiare la Grande Guerra, mentre dentro al suo studio Duchamp aveva quell’idea che come una bomba avrebbe proiettato l’arte contemporanea anni luce avanti rispetto alla propria epoca, abbattendo il confine tra arte e vita. Gli oggetti, le carte di giornale utilizzate per i collage, qualsiasi cosa può ora esprimere il proprio potenziale onirico e poetico.
Duchamp è il primo ad avviare questa rivoluzione, e pensa le sue opere indipendentemente da Dada e Surrealismo, continuando poi con i readymade a lungo tanto che Gilet pour Benjamin Peret, altra opera presente in mostra, vedrà la luce solo nel 1958.
Nel 1916 fa poi il proprio esordio il Dada che acquisisce, modifica e scompone soggetti, testi e immagini prodotte meccanicamente, minimizzando sempre più l’opera d’arte originale e il talento stesso dell’artista.
Le influenze dei collage Dada si faranno sentire a lungo come documentano, in mostra, le opere di artisti che, ancora negli anni Sessanta, ne subiscono il fascino.
Il Surrealismo, che con il Manifesto 1924 diventa movimento a tutti gli effetti, è invece attento all’esplorazione degli aspetti più oscuri della mente: il sogno, l’inconscio, la malattia mentale. Sono gli anni in cui Freud fa conoscere al mondo le proprie teorie, e i surrealisti le conoscono bene, anzi lo conoscono bene, come Dalì che era suo amico e sovente si recava a casa sua per il caffè.
Via via gli artisti surrealisti imparano a sviluppare sempre meglio le tecniche automatiche per eludere al controllo della mente ed accedere al serbatoio creativo del subconscio: l’automatismo è quindi l’equivalente visivo della libera associazione utilizzata da Freud nella psicoanalisi.
E quando negli anni Quaranta molti esponenti del movimento sono costretti a rifugiarsi in America per via dell’imminente guerra, l’automatismo diventa una forza trainante anche per la scuola newyorkese folgorata dall’idea dell’inconscio come fonte creativa: i futuri espressionisti astratti amplieranno sempre più il proprio repertorio di pratiche automatiche.. il passo verso l’arte di Pollock è breve.
Predilette dai surrealisti sono poi le forme ambigue e organiche in un proliferare di sculture e dipinti ispirati all’acqua, a soggetti anatomici, astronomici o desunti dalla botanica, sempre in bilico su un territorio ibrido tra arte astratta e figurativa. Sono le opere di Jean Arp, Yves Tanguy, o Marx Ernst che assorbe i miti e le immagini delle popolazioni native americane e oceaniche, culture che forniscono motivi espressivi liberi da censure.
Chiudono infine il percorso alcune ultime riflessioni fondamentali: anzitutto una sul desiderio, ora liberato attraverso l’arte, facendo della libido una forma di ribellione contro la cesura politica e sociale dei regimi totalitari. Il corpo femminile (non manca ancora una certa concezione patriarcale del gentil sesso), è protagonista di dipinti, fotografie e collage, sino a sfiorare quasi la questione dell’identità di genere con Duchamp che in Rose Sélavy reinventa sé stesso come oggetto del desiderio, oppure scherza con la Gioconda disegnandole i baffi.
Infine in chiusura il paesaggio onirico riassume e sintetizza il percorso con un’opera capitale, Le Château des Pyrenées di Magritte, vera e propria evocazione dal sogno.