Era un settembre dorato di quelli che il cielo toscano regala alla campagna senese. Dappertutto si vendemmiava con entusiasmo, in un’aria allegra di festa, carica della promessa che quell’uva sarebbe diventata ottimo vino. Quando, al Pronto Soccorso dell’antico Ospedale di Santa Maria della Scala di Siena – dove i malati, nelle corsie, dai loro letti, potevano consolarsi contemplando nelle volte degli alti soffitti, edificanti scene della vita di santi e beati dipinti dai grandi maestri della pittura senese del XIV secolo, come Domenico di Bartolo, Lorenzo Vecchietta – arrivò, nel drammatico consueto trambusto di quel luogo, un braccio destro tranciato da una diraspatrice dell’uva. Insieme al braccio, c’era un giovane spaventato, sgomento, terrorizzato, come perduto nel dolore.

Si capì subito, dato il gravissimo stato, come non ci fosse tempo da perdere: “all’ortopedia… all’ortopedia… amputare… amputare immediatamente”. Con queste truci parole, il giovane intuì quale sarebbe stato il suo drammatico futuro prossimo. Si sapeva che in quel reparto ci fosse un giovane medico che si diceva essere: “giovane ma bravino”. “Lui lo amputerà per bene, poi si vedrà, ma subito… subito”. Così si avviò il tremante paziente col braccio gravemente offeso al suo destino. Pronta la sala operatoria, pronti gli anestesisti. Tutto il consueto severo cerimoniale che precedeva l’intervento era compiuto. Si stava per cominciare ad eseguire il macabro rituale dell’amputazione, quando il giovane ortopedico, ma bravino, si fermò e disse: “No” Come un direttore d’orchestra, non dette il “la”, non dette inizio alle note di una sinfonia (la V° di Beethoven… quella detta “del destino!”): “Almeno tentiamo di salvare questo braccio!” L’equipe scettica insisteva: “via via non perdiamo tempo, amputiamo, amputiamo…

Il “no” deciso, autoritario, sconcertò. Alla fine, si accettò di tentare “l’impossibile”. Così comincia la storia di “O torcicollo”.
L’intervento durava da ore e non se ne vedeva la fine.
Gli assistenti si erano dati il cambio ed erano sfiniti. Paura e sangue dappertutto. I medici chini sul letto operatorio cominciarono a provare sgomento, stanchezza, sconforto. Niente andava per il verso giusto. Sull’antico muro della sala operatoria, ricco di anni e di storia, di dolore, pendeva un vecchio crocifisso (di legno?) in cui il capo del Cristo, come vinto, si appoggiava sulla spalla sinistra (torcicollo miogeno: inclinazione laterale della testa associata a rotazione della faccia verso il lato opposto – così recitano i testi di ortopedia).

Non era il “Cristo triumphans” della pittura bizantina ma il “Christus patiens” dell’idea grottesca, sofferente e rassegnato sulla croce. Quel crocifisso ne aveva viste tante dalla sua privilegiata posizione, di piaghe di dolore e sofferenza, ne aveva condivise di storie, di paure, di vita e di morte. Anche questa volta stava li, silenzioso osservatore dell’ennesima triste vicenda umana.
Il giovane ortopedico, sfinito dallo stress, delle ore passate a reggere il peso dell’intervento, ma soprattutto di quello che si era assunto per convincere se stesso e gli altri, a continuare, questa battaglia, perché, comunque, ne valeva la pena. Non era solo un braccio, era un giovane con una vita davanti, con una famiglia, con un destino che poteva essere riscritto dal successo o l’insuccesso di questo intervento.

Quindi, nel silenzio teso, nell’atmosfera quasi ostile della sala operatoria, alzò il capo verso quel Cristo patiensdolens, gli disse: “O torcicollo, non posso amputare questo giovane… Cosa aspetti a darci una mano!” Il clima della sala operatoria si raggelò. Sbigottiti i medici: “lui sempre così misurato, controllato, riservato!
Il silenzio, rotto da quel “O torcicollo” sembrò illuminare, riscaldare (così raccontano). Tutti si sentirono rianimati “Proviamo ancora… tanto vale… non si sa mai”. Il bisturi nemico divenne amico. Le situazioni negative di poco prima sembrano placarsi. La tensione di poco prima, che si tagliava “col bisturi” si cambiò in voglia di fare, di ricominciare, di continuare a tentare: “forse ce la possiamo fare”. Tutti si convinsero che quel braccio martoriato poteva essere restituito, “salvato” a quel giovane. E così fu.
Intanto era scesa silenziosa la notte, non però tanto buia, questa volta, tra le mura dell’antico Ospedale (uno dei più antichi d’Europa) che da mille anni, raccontavano storie di sofferenza e morte, ma anche di speranza!

Dopo qualche mese questo reparto di Ortopedia fu trasferito nel nuovo modernissimo Ospedale di San Miniato. Nelle corsie… luminose televisioni, raccontavano ai pazienti, storie quotidiane dei nostri giorni. Non sappiamo se più o meno edificanti di quelle degli antichi affreschi del vecchio Ospedale di Santa Maria della Scala.

Per anni, quel giovane ricordò quel “dottorino” che gli aveva restituito il braccio destro, ma non conobbe mai la storia di “O torcicollo, che aspetti a darci una mano…

Quel “dottorino, giovare ma… bravino” era mio padre. 

Dettagli

Didascalie immagini

  1. Siena, Santa Maria della Scala, Pellegrinaio
  2. uno scatto l’interno dell’antico ospedale all’interno di Santa Maria della Scala
  3. Crocifisso di Giotto in Santa Maria Novella a Firenze
  4. ulteriore scatto l’interno dell’antico ospedale senese
  5. Odierna veduta esterna di Santa Maria della Scala