Quando sono arrivato a Parigi, avevo già ventiquattro anni, e parlavo il francese in maniera mediocre. Mi è sembrato del tutto naturale adottare il termine ‘plasticistà’ per riferirmi alle arti plastiche; se esistono delle ‘arti plastiche’ esistono degli ‘artisti plasticisti’
(Victor Vasarely in Vasarely Plasticista, 1979)
Nato a Pécs in Ungheria, dove iniziò i suoi studi alla fine degli anni Venti in una scuola d’arte che definì “il Bauhaus ungherese“, il pittore e grafico Victor Vasarely (1906 – Parigi 1997) si trasferisce a Parigi nel 1930. Qui, alla sua attività professionale come grafico pubblicitario affianca uno studio approfondito degli effetti ottici nella grafica, creando una serie di immagini di zebre e altri animali, tutte giocate sul contrasto bianco-nero. Annota: “Legge fisica: tutti i colori insieme = bianco (luce), tutti gli anti-colori insieme = nero (ombra). Di conseguenza, un’opera “nero-bianco” è la più colorata, la più densa e la più differente rispetto alla natura circostante, essa stessa multicolore“.

L’immagine delle Zebre, ideata nel 1937, è considerata tra i primi esempi di Optical Art: la mancanza di linee di contorno produce un effetto di movimento all’infinito, in una sorta di vortice che ben rappresenta uno fra i principi fondamentali nella grafica di Vasarely: con l’abolizione delle distinzioni fra percezione visiva del reale ed effetto illusorio realizza infatti composizioni bidimensionali che sembrano sfondare il piano su cui sono tracciate e farlo ruotare nello spazio, mentre l’effetto di movimento è in realtà generato dallo spostarsi dell’occhio dell’osservatore sulla superficie dell’opera.

Le sperimentazioni e gli studi condotti durante gli anni Trenta approdano nel 1944 alla prima grande personale di Vasarely presso la galleria Denis René, alla quale segue nel 1955 una rassegna collettiva d’importanza fondamentale: oltre a Vasarely vi partecipano numerosi artisti, tra i quali Jean Tinguely, Marcel Duchamp e Alexander Calder, dando vita a quello che si chiamerà semplicemente Le Mouvement; nasce così quel nucleo originario dell’arte cinetica che alcuni critici dell’epoca interpretarono come una contrapposizione alla Pop Art di Andy Warhol.

Per questa mostra Vasarely scrisse il “Manifesto Giallo“, nel quale sono esposti i principi ispiratori e le finalità della sua arte: “La fine di un’arte personale per una élite sofisticata è vicina, ci dirigiamo in linea retta verso una civiltà globale, governata dalle scienze e dalla tecnica. Dobbiamo integrare la sensibilità plastica in un mondo concreto….. L’arte del domani sarà un tesoro comune collettivo o non sarà affatto arte”.

Negli anni Sessanta l’artista riceve la definitiva consacrazione internazionale con la grande mostra “The Responsive Eye” al MoMA di New York e inizia a progettare la realizzazione di un centro di cultura e arte d’avanguardia, scegliendo fra le varie sedi ipotizzate i dintorni di Aix-en-Provence, e qui proprio quella località di “Jas de Bouffan” in cui visse Paul Cézanne, che Vasarely considera il proprio nume tutelare, quale “geniale iniziatore delle arti plastiche del futuro“.

Sullo sfondo della montagna Sainte-Victoire, cara a Cézanne che più volte ne immortalò le nitide geometrie, una struttura avveniristica – più simile a un’installazione che a un edificio nel senso tradizionale del termine – ospita la Fondation Vasarely. La costruzione fu iniziata cinquanta anni fa: nel dicembre 1973 Vasarely pose la prima pietra, sotto la quale depose un messaggio di cui sono state divulgate solo le parole iniziali, “Da Cézanne a Vasarely: noi saremo degni“.

L’esterno è rivestito di pannelli a figure geometriche in bianco e nero: sulla facciata si alternano cerchi e quadrati, fornendo al visitatore un’introduzione alle animazioni cinetiche e ottiche che troverà nell’interno. L’originale struttura, dall’aspetto di una scultura lumino-cinetica monumentale, rappresenta un esempio notevole di sintesi fra principi architettonici e arti plastiche in linea con lo scopo primario del Centro architettonico, creato per esercitare un’azione divulgativa e di ricerca su quella sinergia fra arte, architettura e urbanistica che Vasarely ritiene indispensabile: “Perché la ‘città della felicità’ infine risplenda, si deve far collaborare intensamente l’architetto – un po’ disumanizzato – con l’artista – morbosamente sovrumanizzato“, dichiara nel 1964, aderendo ai principi ispiratori di Le Corbusier per la sua Cité Radieuse.

L’edificio è formato da sedici “alveoli” di forma esagonale, sette dei quali, alti undici metri, costituiscono il piano terra: vi sono esposte quarantaquattro opere di Vasarely di grandi dimensioni – le “integrazioni architettoniche“, come le definì l’artista – realizzate appositamente per questi ambienti, oltre a un auditorium e una biblioteca. Il piano superiore è riservato all’attività espositiva, aperta al pubblico e ricca di iniziative, in gran parte a carattere didattico.

Nel 2017 sono stati avviati i restauri delle “integrazioni architettoniche“, che si stavano progressivamente deteriorando anche a causa dell’eterogeneo abbinamento di materiali e tecniche utilizzati: dai pannelli di alluminio alle tappezzerie e agli arazzi tessuti dalle manifatture di Aubusson su cartoni dell’artista, dagli smalti alla ceramica di Delft fino alle pitture su intonaco, legno e cartone, quasi tutte direttamente applicate sulle pareti da artigiani che seguivano le indicazioni e i bozzetti di Vasarely.

Il percorso attraverso i vari ambienti inizia con opere composte da semplici figure geometriche, abbinando in varie combinazioni forme e colori, per passare a composizioni lumino-cinetiche, dove è il movimento del visitatore all’interno della sala a creare giochi ottici, facendo sì che da spettatore divenga attore. Dalla sala centrale si vedono tutte le altre sei, comunicanti fra loro senza barriere né diaframmi, così che anche in questo caso il visitatore può assumere un ruolo attivo, passando liberamente da un alveolo all’altro in un percorso guidato da un filo conduttore del tutto individuale, o perdersi in un labirinto di sollecitazioni visive fatto di forme e colori esaltati dalla luce zenitale proveniente dal soffitto-lucernario.

Nella sala centrale l’opera chiave è Majus, un’esemplificazione di quell’alfabeto plastico composto da forme geometriche e colori creato da Vasarely, che ne definisce il significato e il valore simbolico: “i cerchi multicolori, i quadrati, sono la controparte delle stelle, degli atomi, delle cellule e delle molecole, ma anche dei granelli di sabbia, dei ciottoli, dei fiori e delle foglie“. Con la creazione dell’alfabeto plastico, che propone un’interpretazione dell’universo mediante un codice binario (forme/colori), Vasarely appare il geniale precursore di quella che sarà l’idea fondante per la nascita della computer graphic.