Il cappello, indispensabile accessorio per una donna di altri tempi, fondamentale per ripararsi la testa dal freddo, dal sole o dalla pioggia, ha una tradizione ultra centenaria in Toscana in particolare Il cappello di paglia di Firenze, già protagonista della commedia di Eugene Labiche del 1851.
Si racconta che nella Toscana del XVI secolo si lavoravano cappelli di paglia di raffinatezza tale da divenire motivo di orgoglio per la stessa corte, tanto che il granduca Cosimo I (1519-1574) usava regalarne ai sovrani d’Europa, intendendo così omaggiarli del migliore prodotto del Regno. Ma è nel 1714, che un certo Domenico Sebastiano Michelacci trasferitosi a Signa da Galeata vicino Forlì, incuriosito dai cappelli intrecciati fatti con steli ricavati dalla battitura del grano dai contadini locali, decise di seminare il frumento al solo scopo di ottenerne paglia per realizzare cappelli. Ottenne risultati che gli permisero di ricavare steli finissimi tali da realizzare trecce estremamente sottili con le quali poteva confezionare raffinati cappelli, che poi riuscì a vendere anche all’estero, come riporta la lapide presente nella chiesa di San Miniato a Signa, ove fu sepolto, “per primo esportò e vendette all’estero i cappelli di paglia. Morì a Signa il 3 agosto 1739”.
Carlo Lorenzini, meglio conosciuto come Collodi, nel suo “Un romanzo in Vapore”, edito nel 1857, racconta con brio tutto toscano ai primi viaggiatori della strada ferrata che da Firenze porta a Livorno, il viaggio in treno riportando curiosità e tradizioni dei vari paesi costeggiati dalla ferrovia. Arrivato all’industre Signa, Onor del Tosco regno (versi di Lorenzo Lippi), fa una bellissima descrizione della cittadina tutta impegnata sulla lavorazione dei cappelli di paglia, e riprende i suoi abitanti per non aver dato il giusto riconoscimento all’ingegnosità di Michelacci. A tal proposito scrive: “…gli Olandesi inalzarono una statua a colui che trovò il modo di salare e di conservare le aringhe, mi pare che i Signesi, con più ragione, avrebbero dovuto scolpire un mausoleo alla memoria di questo Domenico Michelacci.”
Stessa cosa aveva detto Emanuele Repetti nel suo Dizionario geografico, fisico, storico della Toscana (1843).
Nel 1995, su iniziativa del Gas (Gruppo Archeologico Signese), di alcuni industriali del cappello e alcuni appassionati e con il sostegno dell’amministrazione comunale è stata costituita l’associazione Museo della paglia e dell’intreccio D. Michelacci.
Il Museo dedicato all’industre Signa, inaugurato nel 1997, raccoglie attrezzi per la lavorazione della paglia, paglia antica, trecce, cappelli, foto d’epoca e documenti archivistici, ma soprattutto cappelli. Nel 2017 è stato raggiunto un ulteriore traguardo: il Museo è diventato Museo Civico del Comune di Signa.
Il grano, seminato fittamente perché allungasse cercando la luce, e in solchi poco profondi per poter essere sbarbato facilmente, era il gentil rosso con resta nelle due varietà dette semone e semino, in base alle dimensioni del chicco. I nomi assunti da questa semenza variavano di zona in zona ed il semone era talvolta identificato con il marzuolo, conosciuto fin dal tempo dei Romani.
Per raccoglierlo non si aspettava che giungesse a maturazione, ma lo si sbarbava quando il chicco era ancora da formare ed il culmo parzialmente verde.
Lo si sistemava quindi a mazzi detti mannelli e lo si esponeva al sole per tre giorni intervallati da altrettanti notti per reidratarlo alla guazza.
Con questo procedimento l’evaporazione dell’acqua, rimasta nel culmo appositamente sbarbato e non segato e di quella riassorbita durante la notte, portava via il colore e si otteneva lo sbianchimento.
La paglia assumeva così un caldo colore biondo dorato che la rendeva inimitabile ed apprezzata ovunque in Europa dove veniva anche esportata ancora da lavorare.
Utile per l’intreccio era l’ultimo internodo che si sfilava trattenendo il culmo per liberarlo dalla foglia che lo inguaina fino a distaccarsene nel punto in cui compare la ligula posto intorno alla metà dello stesso internodo.
Una volta sfilati, gli internodi venivano liberati della spiga e, una volta spigati, erano raccolti a mazzetti e destinati all’intreccio. La sfilatura, al rientro dalla scuola, era anche compito delle bambine che così contribuivano all’economia familiare.
Si procedeva poi alla sistemazione in mazzetti scegliendo i fili in base al calibro utilizzando per la selezione l’agguagliatrice. I fattorini acquistavano la paglia dai coltivatori e portavano le manate alle trecciaiole disperse su tutto il contado.
All’epoca del granducato di Toscana con Pietro Leopoldo (1765-1790) tanto era importante questa industria che si diceva che una donna che avesse imparato l’arte dell’intreccio, una trecciaiola poteva andare sposa anche senza la dote perché aveva in mano un mestiere che le dava la possibilità di sostenersi economicamente.
I navicellai che dal Ponte a Signa, nel XVIII secolo, attraverso l’Arno, navigabile appunto con i navicelli (piccole imbarcazioni con il fondo piatto), trasportavano le loro merci da Firenze a Pisa e, attraverso il canale dei Navicelli al porto di Livorno e vendevano, in particolare agli stranieri di origine inglese i cappelli di paglia, detti anche Leghorn hats proprio perché venduti nel porto labronico.
Per oltre duecentocinquanta anni l’industria della paglia è stata tra le attività principali nelle Signe. Varie sono le figure professionali : trecciaiole, fattorini, cappellai… E anche tutto un indotto che si sviluppa attorno: la fabbricazione delle forme di legno o metallo, le falegnamerie per le casse per il trasporto e la spedizione, fiori per guarnire, le tintorie. La stessa stazione ferroviaria viene potenziata per favorire il trasporto delle casse con i cappelli. Divenne così quell’industria la principale tra le attività produttive e manifatturiere del Granducato di Toscana impegnando un terzo della sua superficie coltivabile e circa centocinquantamila addetti remunerati.
Le trecciaiole che dal 1714 fino agli anni Cinquanta del Novecento hanno lavorato in Toscana per consentire la produzione di questi cappelli famosi ovunque sono state centinaia di migliaia ed è grazie alla fantasia ed all’abilità delle più esperte ed intraprendenti che si sono realizzate trecce sempre nuove capaci di determinare il cambiamento del gusto e della moda.
In area fiesolana nel 1828 fu introdotto anche l’uso del telaio, lavorazione importata dalla Svizzera e per questo detta anche «all’uso svizzero», che consentì di proporre sul mercato trecce innovative di grande fantasia ed effetto complementari a quelle fatte a mano.
Alla fine dell’Ottocento la straordinaria organizzazione della produzione impiantata dal Michelacci fu messa in crisi dall’importazione delle trecce già pronte dalla Cina che sul mercato costavano meno del grano da seminare.
La crisi fu immediata ed il lavoro, che tanto benessere aveva creato nel vastissimo territorio interessato, mancò all’improvviso, ed i compensi delle trecciaiole furono drasticamente ridotti, provocando la violenta reazione delle donne impegnate a migliaia nell’intreccio della paglia, sia appartenenti alle famiglie dei mezzadri che lavoravano nelle campagne sia abitanti in case d’affitto nei paesi e per questo dette pigionali.
L’alta qualità del lavoro toscano è data ancora oggi dalla bravura delle centinaia di operatori impegnati nelle imprese che danno vita al sistema cappello, anima vera del distretto più importante al mondo per la fabbricazione di questo inimitabile capo di abbigliamento, prodotto precursore del made in Italy.
Tuttora l’arte di fabbricare cappelli è orgogliosamente rappresentata nell’hinterland fiorentino, con aziende importanti.
Per festeggiare i trecento anni dell’industria della paglia, nel 2014 l’associazione Museo della Paglia e dell’Intreccio D. Michelacci fece richiesta di emissione di un francobollo commemorativo. Il Ministero per lo Sviluppo Economico accolse la domanda inserendo l’industria della paglia tra “le Eccellenze del sistema produttivo ed economico.”
Didascalie immagini
courtesy Associazione Museo della Paglia e dell’Intreccio Domenico Michelacci
- Il classico cappello guarnito di paglia di Firenze
- Cappello fiorito del 1865
- La sbarbatura della paglia, 1935 circa
- La sfilatura della paglia, 1935 circa
- Dimostrazione cucitura trecce per realizzazione cappello di paglia di Angela Nunziati (laboratorio organizzato dall’associazione Museo della Paglia e dell’intreccio D. Michelacci alla Mostra dell’Artigianato Firenze)
- Francobollo commemorativo “Industria della Paglia di Firenze” emesso da Poste Italiane nel 2014
- Annullo filatelico 29.11.2014, giorno emissione del francobollo commemorativo “Industria della Paglia di Firenze”
- Annullo filatelico 29.12.2014 emesso per i festeggiamenti del “Museo della Paglia e dell’Intreccio Domenico Michelacci” in occasione dei trecento anni dell’Industria della Paglia di Firenze
In copertina
La sbarbatura della paglia, 1935 circa
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