“Ma in questa terra oscura, senza peccato e senza redenzione, dove il male non è morale, ma è un dolore terrestre, che sta per sempre nelle cose, Cristo non è disceso. Cristo si è fermato a Eboli“
(Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, 1945)
Quando nel 1961 furono organizzate le celebrazioni per il centenario dell’Unità d’Italia, che si tennero a Torino – divenuta un secolo prima la capitale del neonato Regno d’Italia – fra le varie manifestazioni figurava una mostra dedicata alle Regioni, ciascuna delle quali presentava ai visitatori la propria immagine. Per il padiglione della Lucania fu incaricato di dipingere un grande pannello il pittore e scrittore Carlo Levi (Torino, 1902 – Roma, 1975), formatosi alla scuola di Felice Casorati. Torinese di nascita, impegnato nel movimento “Giustizia e Libertà” dei fratelli Rosselli, Levi nel 1935 era stato inviato al confino nel paese lucano di Grassano per sospetta attività antifascista. Poco tempo dopo, ritenendo le autorità che a Grassano Levi fosse troppo facilmente contattabile, fu trasferito ad Aliano, un villaggio di montagna in provincia di Matera. L’anno successivo Levi venne graziato e andò a vivere in Francia, dove rimase fino alla fine della guerra.

L’esperienza del confino, che Levi ha narrato nel romanzo Cristo si è fermato a Eboli, segnò in modo indelebile la vita dell’artista, divenendo la cerniera fra un “prima” e un “poi”, dove la presa di coscienza di un mondo inimmaginabile per un intellettuale torinese degli anni Trenta, significò anche la necessità interiore di testimoniare con i mezzi che gli erano propri, la scrittura e la pittura, la presenza di quell’universo parallelo, arcaico e primordiale, dove aveva trascorso un anno e mezzo di vita. Dopo che aveva iniziato ad ambientarsi a Grassano, per Levi il trasferimento ad Aliano, che affrontò “preparato a veder tutto brutto” fu avvilente, ma poi nacque con la comunità locale – quelli che in seguito chiamerà “i miei contadini” – un legame profondo e duraturo, tanto che Levi sceglierà come ultima dimora il piccolo cimitero del villaggio e donerà al Comune di Aliano alcune sue opere, insieme a documenti, bozzetti e litografie, a costituire quella che è oggi la Pinacoteca Carlo Levi.

Prima di realizzare l’opera per l’esposizione di Torino, Levi tornò in Lucania per riprendere i contatti con una terra che aveva lasciato ormai da tempo e confrontarsi con una realtà che il ricordo poteva avere in qualche modo sbiadito o addolcito; un viaggio della memoria intrapreso insieme al documentarista Mario Carbone, che fissò in immagini fotografiche luoghi e personaggi. Il risultato fu un pannello di oltre diciotto metri, lungo il quale scorrono una serie di scene che seguono lo svolgersi di una giornata, creando un poema epico imperniato sulla figura di Rocco Scotellaro – “il poeta della libertà contadina” lo definì Levi – il sindaco di Tricarico morto di malaria a soli trenta anni.

Oggi, Lucania ’61 occupa una sala del Museo di Palazzo Lanfranchi (Museo di Arte Medioevale e Moderna della Basilicata) a Matera, nella quale sono esposte anche le foto scattate da Mario Carbone in occasione del viaggio compiuto con Levi. Fu l’autore stesso a commentare l’opera in un testo esplicativo redatto per l’esposizione a Torino: “Ecco il quadro, guardiamolo ora insieme nelle sue parti in modo semplice e diretto come io spero di averlo dipinto. Ecco davanti a noi è la Lucania con il suo contenuto di umanità, di dolore antico, di lavoro paziente, di coraggio di esistere. Un paese intero vive in quest’opera, nelle vicende e nei volti dei suoi personaggi. Partendo dall’immobilità millenaria, fuori dalla storia, queste persone si affacciano all’esistenza e il loro percorso, come quello del quadro, è, in breve spazio, lunghissimo come un trascorrere dei secoli“.

Rocco Scotellaro appare più volte nello scorrere della narrazione, che si apre proprio con la scena della veglia attorno al suo letto di morte. Accanto, la vita scorre senza soluzione di continuità e il lamento funebre si intreccia con la ninna nanna che culla la folla di bambini assiepati nella stessa grotta in un affastellarsi di giacigli improvvisati. Rocco compare di nuovo nella parte finale della raffigurazione, al centro del capannello di uomini del villaggio riuniti in piazza a fine giornata.

Tra questi l’artista inserì un gruppo di intellettuali in cui figurano il poeta Umberto Saba e lo stesso Levi, mentre in alto a destra si apre una finestrella dalla quale ad osservare la scena “si affacciano dal loro tempo i grandi morti di Lucania, gli antichi meridionalisti, Fortunato, Nitti, Dorso”: sono alcuni tra coloro che fino dagli ultimi decenni del XIX secolo avevano posto il problema della “questione meridionale”, che dopo un secolo dall’unificazione del Paese appariva ancora agli occhi di Levi in tutta la sua drammatica realtà.

A chiusura del commento a Lucania ’61 Levi suggerisce una sorta di “passaggio del testimone” tra le figure del passato e il messaggio di Rocco Scotellaro: “Che cosa dice Rocco? È il suo un comizio, un discorso politico o è una poesia quella che egli sottolinea col gesto della mano? Forse l’uno e l’altro insieme, forse egli dice i suoi versi, la sua Marsigliese contadina: Spuntano ai pali ancora / le teste dei briganti / e la caverna / l’oasi verde della triste speranza / lindo conserva un guanciale di pietra…/ Ma nei sentieri non si torna indietro. / Altre ali fuggiranno dalle paglie della cova, / perché lungo il perire dei tempi, / l’alba è nuova, è nuova”.