Uno degli infiniti capolavori razziati dalle truppe napoleoniche è temporaneamente tornato a Perugia. Mi riferisco all’Immacolata Concezione di Giovan Battista Salvi detto il Sassoferrato prelevata nel 1812 dall’abbazia benedettina di San Pietro per ordine di Dominique-Vivant Denon, direttore del Musée Napoléon, come si chiamava un tempo l’odierno Museo del Louvre, e da allora è sempre rimasta in Francia.

L’occasione per il rientro in Italia del dipinto è la mostra Sassoferrato dal Louvre a San Pietro: la collezione riunita, che la Fondazione per l’Istruzione Agraria di Perugia (presieduta dal Magnifico Rettore dell’Università degli Studi di Perugia Franco Moriconi) ha irealizzato per la la Galleria Tesori d’Arte del complesso benedettino di San Pietro e che proseguirà fino all’1 ottobre 2017.

Tutte le opere del Salvi conservate in San Pietro furono commissionate dall’abate Leone Pavoni che resse per lunghi anni la comunità benedettina. Era di sua proprietà la magnifica Santa Francesca Romana con l‘angelo, oggi custodita nella sagrestia della Basilica, per lunghi anni attribuita a Caravaggio, in realtà capolavoro di Giovanni Antonio Galli detto lo Spadarino, uno degli interpreti più fedeli del maestro lombardo. In omaggio all’ abate Pavoni, singolare figura di committente e collezionista, anche questa tela fa parte del percorso espositivo.
Lo studio sistematico delle opere esposte, in aggiunta ad alcuni documenti inediti emersi dalle carte custodite nell’archivio della Basilica e alla pubblicazione di nuove fonti utili per la ricostruzione della vita del Sassoferrato, hanno formato un ricco catalogo pubblicato per l’occasione dall’editore Aguaplano con l’obiettivo di ridare nuova luce a un artista che Adolfo Venturi aveva definito  “un quattrocentista smarrito nel Seicento”.

La professoressa Cristina Galassi, curatrice della mostra insieme a Vittorio Sgarbi, sottolinea: “Sono presenti capolavori provenienti da varie raccolte pubbliche e private italiane e straniere. Si possono  ammirare, fra l’altro, tutte le opere del Salvi (ben 17) eseguite per il complesso benedettino di San Pietro.”
Accanto al Sassoferrato esposte anche opere di Pietro Perugino, il grande maestro umbro lungamente studiato dal pittore marchigiano. “L’intento – evidenzia la Curatrice – è quello di far capire quanto il pittore rinascimentale abbia influito sulla visione dell’artista seicentesco, a cominciare dalla purezza formale delle immagini”.

Fra l’altro, Sassoferrato riservò altrettanto interesse alle opere umbre di Raffaello così, in mostra, vengono messe a confronto due copie della Deposizione Borghese di Raffaello, la prima di Orazio Alfani, la seconda di Giuseppe Cesari detto il Cavalier d’Arpino, provenienti dalla Galleria Nazionale dell’Umbria, con la bella versione dipinta da Sassoferrato nel 1639.

Uno spazio significativo viene riservato anche alla cosiddetta Madonna del Giglio, immagine devozionale che assicurò grande notorietà al Sassoferrato: se ne presentano tre versioni: le prime due provengono da Modena e da Bologna, la terza è di proprietà della Fondazione. In queste opere l’artista riprende un’antica immagine di culto realizzata da Giovanni di Pietro detto lo Spagna, dotatissimo seguace di Perugino e Raffaello.
La professoressa Galassi continua a guidarci nel percorso e aggiunge: “Di fronte a opere del genere gli studiosi si sono legittimamente chiesti fino a che punto la pittura di Sassoferrato debba essere considerata originale.

In realtà, e la mostra lo conferma in pieno, sarebbe sbagliato considerare il Salvi un mero imitatore, perché, come ha acutamente osservato Federico Zeri, egli non si limita a copiare le opere degli artisti presi a modello ma aggiunge sempre la sua personale interpretazione. Ciò emerge chiaramente dal confronto tra la bellissima Maddalena del Tintoretto e la versione di mano del Sassoferrato, dove le forme turgide e quasi sensuali del pittore veneto vengono riproposte dal Salvi con un linguaggio più asciutto e temperato. In mostra non mancano, d’altra parte, opere in cui l’artista si palesa in tutta la sua eccezionale originalità. Ecco dunque la Giuditta con la testa di Oloferne, un dipinto che non è esagerato includere tra i capolavori del Seicento italiano, la grande Annunciazione della Vergine, opera di rara finezza esecutiva, i santi Benedetto, Barbara, Agnese e Scolastica, lavori in cui l’artista, pur rispettando l’autorità dei modelli, mette da parte ogni forma di deferente imitazione. Esemplare, in tal senso, è anche la Madonna con il Bambino e Santa Caterina da Siena, concessa dalla Fondazione Cavallini Sgarbi, autentico vertice della pittura religiosa del Seicento
”.

Proveniente da collezione privata ed esposta per la prima volta al pubblico, un’opera recentemente riemersa dal circuito del collezionismo. Sottoposta a minuziose indagini scientifiche, bibliografiche e stilistiche è stata indubitabilmente attribuita a Giovan Battista Salvi. Si tratta della “Betsabea al bagno” che permette di apprezzare un’ulteriore aspetto det percorso artistico del Sassoferrato, mostrando come la sua attività di pittore e copista sia stata talora mediata da incisioni e stampe che dovettero circolare nella sua bottega romana.

Nella fattispecie l’episodio veterotestamentario della Betsabea è ripreso fedelmente da una xilografia dell’artista tedesco Hans Burgkmair il Vecchio datata 1519 e conservata a Londra al British Museum.

Dettagli

Giovan Battista Salvi detto Il Sassoferrato
Brevi note biografiche

Giovan Battista Salvi, ma noto con il nome di Sassoferrato – la città marchigiana dove nacque il 25 agosto 1609 – mosse i suoi primi passi nella pittura con il padre Tarquinio. Come ci informa Luigi Lanzi nella sua Storia pittorica (1792), l’artista completò la formazione a Roma: nel 1629 risulta, infatti, abitare presso la dimora del Domenichino con il quale avrebbe anche fatto un viaggio a Napoli di cui però non si hanno tracce.
Una delle prime e più importanti commissioni per l’artista giunse dal monastero di San Pietro a Perugia. L’abate Leone Pavoni da Todi, durante il suo primo mandato svolto tra il 1632 e il 1637, fece eseguire al Salvi una serie di repliche della cinquecentesca Madonna del Giglio, un’immagine particolarmente venerata e trasportata nella chiesa perugina nel 1643. I contatti con l’ambiente monastico si protrassero tuttavia per quasi tutto il quarto decennio del Seicento come conferma una delle tele più significative realizzate per San Pietro, ovvero la copia del Trasporto di Cristo di Raffaello, sulla quale è stato possibile leggere, lungo il bordo della veste di Nicodemo, la data 1639. Il talento di Sassoferrato emerge in tutta la sua complessità nelle opere di Perugia che, tra quelle ancora presenti in loco e quelle emigrate, ammontano a diciassette. Raffinato interprete dei modelli perugineschi e raffaelleschi, come si può ammirare nella serie di dieci tele raffiguranti Santi e Sante destinate agli appartamenti dell’abate, ma anche nell’Annunciazione e nelle allegorie della Fede e della Speranza, ispirate rispettivamente alla predella della Pala Oddi e a quella del Trasporto del Sanzio, l’artista mostra di aver assimilato i dettami del classicismo reniano nell’Immacolata Concezione, ma anche di non essere indifferente alle novità del panorama romano di primo Seicento come suggerirebbe la scelta di un tema iconografico caro agli artisti della cerchia caravaggesca come la Giuditta con la testa di Oloferne.
Il bagaglio figurativo del pittore delle belle Madonne (Galassi 1792) – tale l’appellativo si deve a una copiosissima produzione di immagini devozionali della Vergine di grande successo – è  estremamente variegato e spazia dai primitivi umbri e marchigiani del Tre e Quattrocento, passando per la produzione cinquecentesca dei principali maestri toscani e veneti, fino alla pittura coeva all’artista che sembra ispirare soprattutto le opere romane degli anni quaranta e cinquanta del Seicento come la Madonna del Rosario per Santa Sabina del 1643, in cui è evidente il debito contratto verso le opere marchigiane di Orazio Gentileschi, o le copie tratte dalle celebri Madonne di Pierre Mignard.
Il Sassoferrato alimentò la sua ispirazione ricorrendo ampiamente al patrimonio incisorio e grafico ma sviluppò anche una straordinaria abilità nel disegno come testimonia un gruppo di fogli della Windsor Collection di Londra, contraddistinti da un segno preciso e fermo. Particolarmente brillanti sono, infine, le sue doti di ritrattista e a dimostrarlo, primo fra tutti, è l’Autoritratto, donato dal cardinale Flavio Chigi a Cosimo III de’ Medici e confluito alla Galleria degli Uffizi nel 1682; di grande forza espressiva e limpidezza formale risultano anche i ritratti di Ottaviano Prati nella Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini, del cardinale Pietro Ottoboni dei Musei Civici di Padova e del cardinale Angelo Rapaccioli del Ringling Museum di Sarasota.
Pochi elementi archivistici permettono ad oggi di dare una precisa scansione cronologica alle numerosissime opere del maestro. Sappiamo, invece, che insieme alla sua famiglia il Sassoferrato, stabilitosi definitivamente a Roma, abitò dal 1658 fino al 1673 nella parrocchia di San Salvatore ai Monti, in via Baccina, e poi in via dei Serpenti, nella parrocchia di San Francesco di Paola, fino alla morte avvenuta il 1° agosto 1685.
Il testamento e l’inventario permettono di ricostruire l’organizzazione della bottega del Salvi, alla quale dovettero collaborare anche due dei suoi figli, Alessio e Stefano, e nella quale si cercava di mantenere un livello di produzione particolarmente alto per far fronte alla grande concorrenza romana del secondo Seicento. A gettare una luce diversa sulla personalità dell’artista ha contribuito di recente l’informazione che Sassoferrato apparteneve all’Ordine terziario francescano, fornita nel 1677 da Pietro De’ Sebastiani.

Dove e quando

Evento: Sassoferrato dal Louvre a San Pietro: la collezione riunita

Indirizzo:
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Fino al: 01 Ottobre, 2017