Sentendo di una nuova mostra a tema impressionista, accade spesso si chiedersi: “un’altra?” Però, anche se molti aspetti sono stati indagati, studiati, approfonditi e ripetuti, è sempre enorme lo spazio per ottime idee espositive come nel caso di quella in corso a Rovigo, a Palazzo Roverella fino al 25 giugno, che accompagna il visitatore alla scoperta del Renoir meno noto.
Pierre-Auguste (1841 – 1919) seppur sia stato uno dei massimi esponenti dell’Impressionismo e questa fase della sua produzione, seppur breve e caratterizzata da diversità di vedute con Monet, Pissarro e Degas, è la più nota al grande pubblico, nonostante già verso la fine degli anni Settanta fosse tormentato dall’insoddisfazione e dal bisogno di trovare alternative.
Il viaggio compiuto in Italia nel 1881-1882 fu estremamente utile per evolvere il percorso creativo e, proprio dalla luce di Venezia e del Mediterraneo, dallo sguardo ai grandi maestri del passato e dalle riflessioni sulla tecnica pittorica, delineò una sorta di nuova classicità e, di fatto, anticipando aspetti di quel “ritorno all’ordine” che sarebbe poi esploso verso la fine degli anni Dieci del Novecento in reazione alle avanguardie.
Quella rivoluzione creativa lo portò a dipingere in un possente stile neorinascimentale, sviluppando quella “moderna classicità” che ne fece il precursore della cifra stilistica che avrebbe caratterizzato l’arte tra le due guerre. Proprio su questa fase si concentra “Renoir: l’alba di un nuovo classicismo” a conclusione di un consistente lavoro di ricerca del curatore Paolo Bolpagni il cui saggio – nel catalogo (Silvana Editoriale) – si accompagna a quelli di Francesca Castellani, Giuseppe Di Natale, Francesco De Carolis, Michele Amedei e Francesco Parisi.
La fase matura, poi conclusiva della sua carriera, non fu un periodo di decadenza, ma si rivela quasi – con le opere pacate, sontuose e spesso monumentali che la connotano – un presagio di sviluppi successivi dell’arte. L’intento espositivo è di porre in risalto l’originalità di una produzione che non fu per nulla attardata, palesando come costituì uno dei primi casi di “moderna classicità”. In mostra sono presenti quarantasette opere di Renoir – prestiti europei importanti tra cui quello di proprietà personale del principe Alberto di Monaco, la “Baigneuse s’arrangeant les cheveux” del 1890 circa – messe in dialogo con quelle di artisti italiani, i maestri dell’arte del passato cui si ispirò nella fase matura della sua carriera: Vittore Carpaccio, Tiziano, Romanino, Peter Paul Rubens, Giambattista Tiepolo, Jean-Auguste-Dominique Ingres, ma anche di suoi contemporanei come lo scultore Aristide Maillol e gli “italiens de Paris” Giovanni Boldini, Giuseppe De Nittis, Federico Zandomeneghi e Medardo Rosso.
Inoltre, a evidenziare possibili e spesso insospettabili confronti con artisti italiani di una o due generazioni successive, i dipinti di Armando Spadini, che Giorgio de Chirico definì «un Renoir dell’Italia», dello stesso de Chirico, di Filippo de Pisis, Arturo Tosi, Carlo Carrà, Enrico Paulucci, Bruno Saetti, e le sculture di Marino Marini, Arturo Martini, Antonietta Raphaël Mafai ed Eros Pellini.
In tutto ottantatré opere, cui si aggiunge l’edizione storica della traduzione francese del “Libro dell’Arte” di Cennino Cennini, con la prefazione di Renoir, unico suo testo pubblicato in vita.
Durante le ultime fasi preparatorie, esattamente lo scorso 9 febbraio, uno dei musei prestatori, che aveva concesso il bronzo della “Venus Victrix” del 1916, ha dovuto annunciare a malincuore di non poter più concedere l’opera, essendo emerso il sospetto di una sua provenienza problematica durante il periodo dell’occupazione nazista. Il curatore e gli organizzatori non si sono persi d’animo e sono riusciti ad avere (dalla Kunsthalle di Amburgo) con tempistiche da primato la “Piccola Venere in piedi” del 1913 che, della “Venus Victrix”, costituisce il fondamentale precedente trattandosi di uno dei primi casi in cui Renoir si misurò con la scultura, aiutato dall’assistente Richard Guino, allievo di Maillol.
Infine, l’ultima sala offre, soprattutto per i cinefili, un’autentica chicca. Come noto Jean, il secondo figlio di Pierre-Auguste, fu uno tra i più grandi registi del suo tempo e, nel raro “Una gita in campagna” del 1936, rese omaggio al padre quasi ricreando, nelle eleganti inquadrature, le scene e le atmosfere dei suoi dipinti. Fruibili, in versione restaurata, alcuni significativi spezzoni con sottotitoli in italiano.