Il rinnovato interesse per la pittura dei Macchiaioli ha portato negli ultimi mesi a realizzare ben due mostre dedicate a questo movimento artistico che segnò la pittura italiana, e anche europea, nella seconda metà dell’Ottocento: a Pisa, presso Palazzo Blu, dall’8 ottobre 2022 al 26 febbraio 2023, a cura di Francesca Dini, al Museo Revoltella di Trieste dal 19 novembre 2022 al 10 aprile 2023, curata da Tiziano Panconi. Oltre alle figure più note, da Telemaco Signorini a Silvestro Lega e fino a Giovanni Fattori, numerosi furono gli artisti che interpretarono il gusto e le filosofie positiviste dell’epoca, in un crogiolo che vedeva gravitare a Firenze personalità diverse, provenienti da ogni parte d’Italia, dal veronese Vincenzo Cabianca al pugliese Giuseppe De Nittis, dal marchigiano Vito d’Ancona al veneziano Federico Zandomeneghi: il gruppo si riuniva presso il fiorentino Caffè Michelangiolo, che sarebbe divenuto il luogo-simbolo del movimento.

Il naturalismo, che imponeva una traduzione pittorica del dato reale con la massima fedeltà possibile, trovava nella pittura di paesaggio l’ambito espressivo più congeniale, mentre ai dipinti che celebravano le gesta dei grandi del passato, molto apprezzati intorno alla metà del secolo, si preferivano le scene di interni nelle quali si coglievano momenti di vita quotidiana.

In ambito macchiaiolo, questa capacità di osservazione legata a una vena intimista, si esprime particolarmente nell’opera di Odoardo Borrani (Pisa, 1833 – Firenze, 1905). La famiglia di Borrani si trasferì a Firenze da Pisa quando Odoardo era ancora bambino; il padre, modesto pittore di paesaggi, lo collocò nel 1849 come apprendista presso il celebre restauratore fiorentino Gaetano Bianchi, all’epoca impegnato nel Chiostro Verde di Santa Maria Novella e poi in Santa Croce, dove lavorò al restauro degli affreschi di Giotto, che il giovane Borrani copiò in una serie di disegni.

Dopo aver frequentato la scuola di nudo dell’Accademia di Belle Arti a Firenze, Borrani inizia dal 1853 a dipingere all’aria aperta insieme all’amico Telemaco Signorini e a Vincenzo Cabianca. Tra i soggetti preferiti, vedute di paesaggi e scorci, con un’attenzione particolare alle architetture medievali, spesso raffigurate sullo sfondo di grandi quadri di soggetto storico, il che a Firenze significava soprattutto la rievocazione di episodi salienti del Quattrocento: con il dipinto Lorenzo de’ Medici che, nella congiura de’ Pazzi, si salva nella sacrestia del Duomo, Borrani vinse nel 1858 il concorso triennale dell’Accademia.

L’anno seguente, insieme a Signorini e altri pittori del gruppo macchiaiolo, partecipò con i volontari toscani alla Seconda guerra d’Indipendenza; a differenza di quanto avverrà per Fattori, i soggetti legati alle guerre risorgimentali non rientrano fra le tematiche trattate frequentemente da Borrani, che del periodo storico fissa nei suoi dipinti piuttosto i riflessi sulla vita quotidiana. Alla Prima Esposizione Nazionale che si tenne a Firenze nel 1861, Borrani presentò Il 26 aprile 1859, che si ispirava alla fine del Granducato di Toscana, con la conseguente annessione al Regno d’Italia; conosciuto anche come La cucitrice del tricolore, il dipinto rappresenta una donna seduta davanti alla finestra mentre cuce la bandiera tricolore destinata a sventolare il giorno successivo (il 27 aprile), quando i Lorena lasceranno Firenze.

Il soggetto patriottico viene affrontato solo con l’allusione contenuta nel titolo, senza trionfalismi, filtrato attraverso i suoi riflessi sulla vita domestica. Allo stesso modo, nelle Cucitrici di camicie rosse, dipinto nel 1863 e ispirato alla spedizione garibaldina, l’evento storico è celebrato con la scena casalinga di un gruppo di giovani donne intente al lavoro di cucito, e che si tratti delle camicie per i garibaldini lo si deduce solo dal colore del tessuto che tengono in grembo.

Borrani guarda spesso con grande attenzione e sensibilità al mondo femminile – come nel caso de L’analfabeta, del 1869 – e frequenti sono i dipinti in cui sceglie di rappresentare un momento storico vissuto attraverso gli occhi e i gesti delle donne e la loro partecipazione alla vita sociale e politica: così, nel più tardo Bollettino del 9 gennaio 1878, tre donne siedono attorno al tavolo di un interno borghese, mentre una di loro legge alle altre il giornale con la notizia della morte di Vittorio Emanuele II.

Nell’estate del 1860, con Signorini, Cabianca e altri pittori, Borrani soggiornò nel Valdarno fiorentino per dipingere all’aria aperta e sperimentare una pittura che cogliesse dal vero i rapporti di luce e colore dei soggetti trattati, così come farà negli anni seguenti a San Marcello, sull’Appennino pistoiese, e a Castiglioncello, sulla costa livornese. Qui, l’artista frequentò assiduamente il gruppo di macchiaioli che si riuniva attorno a Diego Martelli e dipinse numerosi quadri, vivendo il periodo di maggiore felicità creativa di tutto il suo percorso artistico.

La tela Le primizie, in cui una signora seduta a leggere sul balcone riceve l’omaggio di una giovane contadina che le porta un cestino di pesche, è forse una delle opere più meditate di Borrani: nelle forme nitide e solidamente strutturate appare evidente la lezione dei maestri del Quattrocento toscano, da Filippo Lippi a Piero della Francesca, mentre attento studio è riservato agli effetti di luce, dalle mille sfumature dei bianchi che animano le zone d’ombra al controluce dei vasi sul muretto. In questo periodo, insieme a Silvestro Lega e Giuseppe Abbati, Borrani è tra i protagonisti della cosiddetta “scuola di Piagentina”, un nucleo di pittori riunito in quello che all’epoca era ancora un angolo appartato di serena campagna, poco fuori dalla città e vicino all’Arno, il fiume a cui Borrani dedicò una serie dipinti pieni d’incanto.

Elemento unificante fra le diverse personalità che frequentavano Piagentina, è il senso di nostalgia per un mondo che si avvertiva irrimediabilmente condannato dall’avanzare del tessuto urbano, con le trasformazioni e le speculazioni edilizie che la designazione di Firenze a capitale d’Italia portava con sé; quel tono di malinconico rimpianto che traspare in Casolari a Piagentina e di cui rimane testimonianza nei taccuini dell’artista, pieni di disegni e schizzi che fermano sulla carta angoli e scorci di una Firenze destinata ben presto a scomparire.

Ma sono soprattutto le rive dell’Arno a far vibrare la corda poetica più profonda di Borrani: L’Arno a Varlungo, L’Arno. Motivo dal vero e L’Arno alla Casaccia, dipinti nel corso di alcuni decenni – il più tardo, L’Arno a Rovezzano, è del 1897 – mostrano quanto attraverso il tempo si sia mantenuta inalterata nella pittura di Borrani la magia delle luci e delle atmosfere fluviali, quella vena poetica dolce e malinconica che ancora oggi incanta e seduce. Sono opere caratterizzate da una grande armonia compositiva, dai colori luminosi e calibrati, sempre e comunque improntate a un realismo rigoroso, che si esprime nelle luci cristalline e nelle ombre nette, con una tecnica che richiama la grande tradizione pittorica degli antichi maestri.

Lo scarso successo di critica e pubblico che accompagnò l’artista praticamente per tutta la vita, lo spinse nel 1872 a cercare fonti di sostentamento alternative, aprendo nel centro di Firenze una galleria d’arte insieme a Silvestro Lega, allo scopo di promuovere e sostenere la pittura dei macchiaioli; ma nonostante l’appoggio di amici generosi, l’attività chiuse nel giro di due anni. Dal 1879 la situazione economica di Borrani migliorò: il pittore entrò a far parte del corpo docente dell’Accademia delle Arti del Disegno e nello stesso periodo iniziò una collaborazione come disegnatore alla “Illustrazione italiana”. Nel corso degli anni Ottanta svolse anche attività di decoratore per la Manifattura Ginori di Doccia, per conto della quale realizzò una serie di scene campestri raffigurate su porcellane di grandi dimensioni. Di questa significativa produzione, che si riteneva del tutto perduta, è stato scoperto anni fa un esemplare, acquistato a suo tempo dal re Carlo I di Romania e conservato oggi nel castello di Peles.