“Non c’è nulla qui come Carpaccio!” scriveva da Venezia nel 1869 John Ruskin al pittore britannico Edward Burne-Jones per comunicargli l’entusiasmante incontro con l’arte di Carpaccio, la cui Presentazione al Tempio era per Ruskin il quadro migliore tra tutti quelli esposti all’Accademia. Vittore Carpaccio (Venezia, 1465 ca. – 1525 o 1526) è tornato trionfalmente nella sua Venezia dopo un’assenza di sessanta anni dall’ultima mostra monografica, presentata a Palazzo Ducale nel 1963. Nella rassegna Vittore Carpaccio. Dipinti e disegni sono esposti fino al 18 giugno 2023, presso l’Appartamento del Doge a Palazzo Ducale, oltre settanta fra dipinti e disegni dell’artista che più di ogni altro mise in scena lo spettacolo quotidiano della moltitudine di popoli e culture che confluivano e si confrontavano nella Venezia del suo tempo.

I dipinti di soggetto religioso e le animate scene della vita in laguna, fra cerimonie civili e fastose processioni, appaiono accomunati dalla stessa creatività, scaturita dalle doti narrative e descrittive dell’artista ed espressa con la maestria tecnica e pittorica che caratterizzano tutta la produzione di Carpaccio. Il nucleo di disegni presentato in mostra a corredo delle opere pittoriche offre una preziosa testimonianza dell’attenzione che il pittore dedicava a studiare e riprodurre in maniera minuziosa la realtà, analizzandone ogni ambito, dalla natura alla prospettiva, dai costumi del suo tempo agli effetti della luce.

Andrea Bellieni, co-curatore della rassegna veneziana, lo definisce “uno dei pittori più originali, fantasiosi e inventivi operanti nella Venezia del pieno Rinascimento, all’epoca straordinario crocevia economico e culturale”. A Venezia Carpaccio si formò seguendo la tradizione locale dei Bellini e dei Vivarini, ma guardando anche a quanto si stava sperimentando e realizzando in ambito ferrarese e toscano, e spingendosi oltralpe verso linguaggi figurativi diversi, dalla lezione di Albrecht Dürer alla pittura fiamminga, che nella seconda metà del Quattrocento era grandemente apprezzata presso le corti e le committenze aristocratiche dell’Italia centro-settentrionale.

Ancora Andrea Bellieni ci ricorda che Carpaccio “fu sempre celebrato soprattutto per i suoi cicli, serie coordinate di tele (teleri) che tramandano articolati racconti sacri: quasi cinematografici, perfettamente ‘sceneggiati’ nella loro eloquente narrazione visiva popolare, furono realizzati per le sale di riunione di confraternite religiose laicali, a Venezia dette scuole”. In mostra è tornato a ricomporsi il complesso di dipinti che ornavano la Scuola di Santa Maria degli Albanesi, dispersi in varie collezioni dopo l’abolizione delle Scuole in epoca napoleonica.

Carpaccio è il massimo rappresentante di quella pittura veneziana fra Quattro e Cinquecento che John Ruskin definisce “prosaica e franca”, dotata di un “supremo senso comune”, ma allo stesso tempo avvolge le accurate notazioni naturalistiche e la propria inesauribile capacità narrativa in un’aura leggendaria che trasporta lo spettatore all’interno di scene fiabesche, come nelle Storie di Sant’Orsola (1490-1495), forse il ciclo pittorico più rappresentativo nella parabola creativa dell’artista. Custodite presso le Gallerie dell’Accademia le Storie, insieme con i teleri per la scuola di San Giorgio degli Schiavoni (1502-1507) – tuttora nella sede per cui furono concepiti – costituiscono un’imprescindibile appendice al percorso della mostra. A Palazzo Ducale è esposto il San Giorgio che uccide il drago e quattro scene del suo martirio (1516) dell’Abbazia di San Giorgio Maggiore: nonostante il carattere truculento della scena, con il drago trafitto dalla lancia del santo, in sella al suo cavallo che galoppa sui resti smembrati delle precedenti vittime, la rappresentazione ha l’elegante e raffinata levità di un poema cavalleresco.

Tra celebrazione e atmosfera fiabesca si colloca anche l’effigie del Leone di San Marco, rappresentato con le zampe anteriori sulla riva e quelle posteriori nell’acqua, con un’allusione ai successi militari della Serenissima che con la vittoria contro la Lega di Cambrai mirava ad avanzare ulteriormente nell’entroterra. Sullo sfondo compare una veduta di Venezia, descritta con precisione da miniaturista, in cui si distingue chiaramente l’area monumentale di Piazza San Marco mentre a fianco delle potenti mura dell’Arsenale si svolge un intenso traffico marittimo, asse portante del benessere e della gloria di una città all’apice della sua potenza.

Forse è proprio per la coinvolgente capacità di affabulatore che distingue Carpaccio fra gli artisti del suo tempo, che l’enigma della tavola raffigurante Due dame ha suscitato l’interesse e l’attenzione riservati a una storia il cui finale è avvolto nel mistero. L’opera apparve sul mercato dell’arte nel 1830, alla morte del nobile veneziano Teodoro Correr, tra i dipinti elencati nell’inventario della sua collezione come una “tavola rappresentante due Donne che scherzano con due cani”.

Nella mostra di Palazzo Ducale, la tavola con le due figure femminili e la scena di Caccia in laguna sono tornate a congiungersi, riportando alla forma originaria quella che doveva essere una delle due ante della porticina di accesso a uno studiolo, o di un armadio. L’ipotesi è suffragata dal trompe-l’oeil dipinto sul retro della Caccia in laguna che raffigura alcune lettere appese a un pannello incorniciato. Mentre le Due dame sono sempre rimaste a Venezia, custodite presso il Museo Correr, e la Caccia in laguna – ritrovata presso un antiquario romano alla fine della Seconda Guerra Mondiale – è approdata al Getty Museum di Malibu, non si ha alcuna notizia del pannello di sinistra, che quasi certamente completava la narrazione: danneggiato irreparabilmente nel corso del tempo e andato distrutto? Sepolto in fondo a qualche caveau o nelle privatissime stanze di un grande collezionista?

In questo nuovo e più ampio contesto l’immagine delle due dame – nella quale John Ruskin trovava l’eco “del Van Eyck nei particolari, di Giorgione nelle masse, di Tiziano nel colore” – che si stagliano sullo sfondo della distesa lagunare, dove lo svolgersi della caccia è descritto con ricchezza di particolari, sembra caricarsi di significati e sottintesi densi di mistero. Entrambe si rivolgono verso un soggetto esterno alla scena, assente eppure determinante, elemento in grado di dare un senso compiuto a quella narrazione sospesa tra cronaca e fiaba, che appare la caratteristica saliente della pittura di Carpaccio e una delle ragioni del suo incanto