“La fotografia è essenzialmente una questione
personale: la ricerca di una verità interiore“.
(Inge Morath)
Apre oggi al pubblico, allestita al Museo di Palazzo Grimani “Inge Morath Fotografare da Venezia in poi” una sezione inedita per l’Italia, dedicata alla città lagunare, dove la carriera della fotografa ebbe inizio.
E’ sempre l’amore a “muovere il mondo” e fu l’amore a portare a Venezia i novelli sposi Lionel e Inge Burch. Poi, il maltempo e Robert Capa, fecero della Morath la prima donna fotografa dell’Agenzia Magnum Photos in quanto, all’epoca, collaborava con la celebre agenzia fotografica parigina come collaboratrice redazionale occupandosi, anche grazie alla sua conoscenza delle lingue, della realizzazione delle didascalie che accompagnavano le immagini dei fotografi.

Non fotografava, ma non le mancavano occhio e sensibilità. In quel novembre, la luce di Venezia sotto la pioggia la stregò, tanto da indurla a chiamare Capa per suggerirgli di inviare un fotografo in grado di catturare la magia che tanto la stava stupendo. Capa le rispose che, a Venezia, un fotografo di Magnum c’era già: lei con la macchina fotografica. Non restava che comprare un rullino, caricarla e iniziare a fotografare.
“Ero tutta eccitata. Sono andata nel luogo in cui volevo scattare le mie fotografie e mi sono fermata: un angolo di strada dove la gente passava in un modo che mi sembrava interessante. Ho regolato la fotocamera e ho premuto il pulsante di scatto non appena ho visto che tutto era esattamente come volevo. È stata come una rivelazione. Realizzare in un istante qualcosa che mi era rimasto dentro per così tanto tempo, catturandolo nel momento in cui aveva assunto la forma che sentivo giusta. Dopo di che, non c’è stato più modo di fermarmi”.

Nel 1955, quattro anni dopo quelle prime fotografie, arriva l’incarico dalla rivista L’Oeil. Una volta a Venezia, avverte l’urgenza di esplorare la città e così “per ore andai in giro senza meta, solo a guardare, ossessionata dalla pura gioia di vedere e scoprire un luogo. Ovviamente avevo divorato libri su Venezia, sulla pittura e su quello che avrei dovuto fare. Il mio cervello ne era pieno…“.
“Il mio divertimento maggiore era quello di sedermi alla Scuola degli Schiavoni ed immergermi nelle opere di Carpaccio, quasi sempre da sola. O passare il tempo in compagnia del Tiepolo, era la fine del mondo. La sera i miei piedi erano stanchi e anche nel sonno mi trovavo ancora a camminare su innumerevoli ponti, le onde dei canali come pietrificate”.
Poi il Cimitero all’Isola di San Michele, Burano, Murano, Torcello, le processioni, il Redentore, i gatti ed i panni stesi, monumento, acqua e la gente comune… “Come sarei felice di aver catturato con la mia macchina fotografica qualcosa che mi ha commosso, come la donna davanti al cancello del Palazzo Furstenberg con i gomiti piegati dietro la schiena o le scarpe dimenticate davanti a una fontana, la quotidianità in tutto la sua precaria bellezza”.
“Fotografare era diventata per me una necessità e non volevo assolutamente più farne a meno”.

Fino al prossimo 4 giugno, un tuffo in quel passato, nella Venezia focalizzata dall’artista austriaca, attraverso il celebre servizio per conto de L’Oeil, la rivista d’arte scelse di corredare con scorci veneziani un reportage della mitica Mary McCarthy. La mostra è curata da Kurt Kaidl e Brigitte Blüml, con Valeria Finocchi; promossa dalla Direzione regionale Musei Veneto e con il patrocinio e il sostegno del Forum Austriaco di Cultura di Milano e in collaborazione con Fotohof di Salisburgo e la società Suazes che, alcuni anni fa, ha fatto conoscere in maniera dettagliata la carriera della Morath in Italia. Al riguardo Marco Minuz, sottolinea: «Inaugurare un percorso di approfondimento su un autore rappresenta soprattutto una responsabilità, e solo secondariamente una soddisfazione. Inge Morath è una figura che merita di essere affrontata in maniera organica, dando completezza al suo lavoro e alla sua avvincente vicenda umana. Nel percorrere, per la prima volta in Italia, il lavoro di questa fotografa è stata posta l’attenzione a queste due dimensioni fortemente connesse fra loro. Le fotografie di Inge Morath, prima di ogni cosa, sono la testimonianza di un rapporto, di una passione, di una necessità consolidatasi, progressivamente, con la macchina fotografica».

Prosegue poi spiegando : «Un rapporto graduale, sviluppato negli anni della maturità attraverso esperienze, incontri e coincidenze, nonché parte integrante della vita di una donna che è riuscita, con coraggio e determinazione, ad affermarsi in una disciplina all’epoca fondamentalmente maschile. Un lavoro, il suo, sempre baciato dalla riconoscenza verso questa scoperta che le permise di esprimersi in maniera personale, come lei stessa evidenzia: “Nel mio cuore voglio restare una dilettante, nel senso di essere innamorata di quello che sto facendo, sempre stupita delle infinite possibilità di vedere e usare la macchina fotografica come strumento di registrazione”. L’approdo alla fotografia avviene progressivamente attraverso la scrittura: è questa professione che la introduce a questo mondo e successivamente all’agenzia fotografica Magnum Photos con cui inizierà a collaborare come ricercatrice, assistente e traduttrice. Una formazione che influenzerà la sua fotografia; nelle sue immagini infatti c’è sempre la presenza di un contenuto informativo calibrato, sempre utile a favorirne una comprensione univoca ed evitare fraintendimenti. L’esperienza diretta del nazionalsocialismo tedesco e del dramma del secondo conflitto mondiale la spingono, nel momento in cui decide di dedicarsi alla fotografia, a ripudiare la dimensione della violenza. Le sue fotografie non rappresentano infatti mai macerie, tragedie, risvolti violenti della nostra società, ma sono fotografie dedicate alla quotidianità, basate su una complicità costruttiva verso il prossimo. Fotografie di prossimità, sempre caratterizzate da un’eleganza e da un rispetto verso il prossimo. La macchina fotografica diventa, per lei, uno strumento utile per scovare nuove risposte: “La chiusura dell’otturatore è un momento di gioia, paragonabile alla felicità del bambino che in equilibrio in punta di piedi, improvvisamente e con un piccolo grido di gioia, tende una mano verso un oggetto desiderato”.»