Ci sono mostre da visitare due volte: una per apprezzarne le opere emblematiche, l’altra per intraprendere un viaggio introspettivo, sollecitato dalle stesse, verso un altro mondo o altri stati di coscienza, contemplazione, meditazione. È il caso di Icônes aperta lo scorso 2 aprile dove, oltre ottanta capolavori della Collezione Pinault (tra cui alcuni inediti provenienti dalla personalissima collezione del Presidente) invitano a riflettere sul tema dell’icona, troppo spesso strumentalizzato e abusato, e il potere dell’immagine nella contemporaneità.

Se “icona” aveva due accezioni – l’etimologia rimanda al concetto di “immagine”, mentre l’utilizzo generalmente si riferisce a un certo tipo di pittura religiosa caratterizzante il cristianesimo orientale – adesso, in tempi più recenti, il termine viene associato all’idea di modello o di figura emblematica. In un contesto globale dove si oscilla tra l’ebbrezza e la denuncia di fronte all’abbondanza di produzioni visive e all’inflazione commerciale del “tutto visibile”, è sicuramente una grande sfida questa mostra indirizzata alla ripresa del termine per elevarlo all’energia immateriale orientata allo sguardo – diffusa dalla materia e dai materiali rivolti alla visione – così da restituire autentico potere e diritti all’invisibile nel cuore del sensibile.

L’immagine, la sua capacità di rappresentare una presenza, tra apparizione e sparizione, ombra e luce, di raffigurare uno spazio fisico e di generare un’emozione empatica con i visitatori, è al centro del nuovo percorso concepito per gli spazi di Punta della Dogana e il contesto veneziano nello specifico arricchito dal forte legame con l’Oriente bizantino e, più in generale, con il dialogo Oriente e Occidente.
Dalla fine del Medioevo, l’arte veneziana si è evoluta per la sintesi di influenze diverse – non solo bizantine, ma anche gotiche e fiamminghe – declinando il ruolo di collegamento svolto dalla Serenissima. Ancora oggi Venezia è un incrocio in cui orizzonti molteplici si intersecano e si ibridano, fornendo terreni fertili alla creazione.

Con la curatela di Emma Lavigne – direttrice generale della Pinault Collection – e Bruno Racine – direttore e amministratore delegato di Palazzo Grassi/ Punta della Dogana – la mostra riporta l’icona a una realtà trascendentale con il potere di attualizzare la presenza dell’invisibile, creando un’emozione, o un abbagliamento, estetico e spirituale.
Iconostasi, dispositivi per celare gli officianti del culto dietro un muro di immagini, come una porta verso il mondo divino, lavori capaci di realizzare spazi come pause o luoghi di raccoglimento nell’era della saturazione di immagini e della loro appropriazione indebita o banalizzante.

Dipinti viventi, riti e tutto ciò che fa dell’immagine uno spazio di relazione tra gli esseri umani e che li trascende. Il risultato è rappresentare sia la fragilità, sia la potenza delle immagini e il loro carattere polisemico. Le opere diventano apparizioni, illuminazioni, rivelazioni, fino alla trasfigurazione. Alcune generano ambienti sonori, cappelle immateriali per l’ascolto più profondo e rendono percepibili altre immagini, sensazioni e affetti.

Nel torrino di Punta della Dogana, rivestito di specchi e di pellicole che diffrangono la luce, la polifonia composta da Kimsooja amplifica l’esperienza spaziale e aspira alla trascendenza.
La musica si impadronisce dei corpi nell’opera di Camille Norment e i visitatori, seduti su panche di legno, sono attraversati dalle vibrazioni delle onde sonore che, attraverso i gemiti dei cori gospel afroamericani, producono un’esperienza sensoriale capace di risvegliare la memoria delle comunità nere.

La Curatrice, inoltre, spiega: «Nell’opera di Dineo Seshee Bopape, Mothabeng, i suoni provenienti da una cava di pietra in Toscana fanno vibrare la cappella di argilla attraversata dalla luce e permettono di riconciliare con la terra i corpi offesi, radicandoli nuovamente in una memoria geologica primordiale. Girato tra le macerie della chiesa di Saint Laurence nel quartiere afroamericano di South Side a Chicago, Gone are the Days of Shelter and Martyr di Theaster Gates ci fa percepire la scomparsa dei luoghi di comunione, il lutto (mourning) senza fine di una comunità. La musica permette all’artista di trasformare la violenza della situazione in un’esperienza del sublime. Il canto gospel, carico di emozioni, porta la speranza di una rinascita».

Bruno Racine, riflette: «La sfida che ogni esposizione tematica deve affrontare è quella di rendere comprensibili o sensibili le ragioni che hanno presieduto alla scelta delle opere e degli artisti. Icônes non vi si sottrae e propone una gamma di esperienze che vanno dalla contemplazione delle opere estreme di Robert Ryman, di assoluta semplicità e raccolte come quelle di Roman Opałka in una sorta di santuario, all’impatto visivo e sonoro dei video di Arthur Jafa. Qual è l’invito che Danh Vo ci rivolge mostrandoci la bandiera a stelle e strisce?»

Su La Nona Ora di Maurizio Cattelan, il Direttore sottolinea: «Benché lo scalpore delle polemiche si sia attutito, resta dunque, nel 2023 come nel 1999, ciò che l’artista ha voluto: un’opera che a prima vista turba, addirittura sconvolge, ma che secondo la sua stessa espressione e in riferimento alla Passione di Cristo costituisce “un lavoro spirituale che parla della sofferenza”».

Bruno Racine poi conclude: «Siamo lontani dall’immagine della superpotenza idolatrata che tutti cercano di imitare, pur professando odio nei suoi confronti: il vessillo lacerato pende miseramente come uno straccio, evocando la disfatta degli Stati Uniti in Vietnam e l’odissea della famiglia dell’artista tra centinaia di migliaia di boat-people. Assurta a simbolo della vanità delle grandezze umane, attraverso lo squarcio la bandiera lascia intravedere una Madonna con Bambino. Come gli altri artisti presentati, Danh Vo ci invita a portare il nostro sguardo al di là, a riconoscere l’icona sotto la varietà delle specie. Tocca a noi fare lo sforzo necessario per non essere come quelli “che hanno occhi e non vedono».