A Verona, fino al 5 marzo 2017, sono esposti 250 reperti di notevole pregio-storico culturale, grazie a una rassegna dedicata alla misteriosa e affascinante civiltà Maya, mostra del Governo della Repubblica Messicana, del Ministero della Cultura del Messico e dell’INAH (Instituto Nacional de Antropología e Historia), l’istituzione più importante del Ministero della Cultura del Messico.
A cura di Karina Romero Blanco, a quasi vent’anni di distanza dalla mostra del 1998 sui Maya di Venezia, torna in Italia la storia “artistica” di un popolo che ci ha catturati per le abilità matematiche e scrittorie, per le opere d’arte e gli ingegnosi calendari.
L’esposizione svela i risultati delle ricerche scientifiche più recenti sulla civiltà americana in questione e coniuga la lettura archeologica a quella storico-artistica individuando maestri, stili e scuole. Seguendo il filo tematico della bellezza, attraverso parole e testi degli stessi Maya, sono presentati elementi architettonici come fregi e architravi, sculture dalle forme umane e animali, mappe, stele, terracotte, urne funerarie, monili, maschere in giada, strumenti musicali e incensi, provenienti dai più importanti musei messicani e dai siti archeologici di antiche città come Calakmul, Chichen Itza, Palenque e Uxmal.
Il pubblico può leggere direttamente i testi, che rispondono alle curiosità di sempre legate alle profezie, alla caduta del mondo ipotizzata per la fine del tredicesimo baktun (il 21 dicembre 2012), ai segreti del Conto Lungo, al giorno della creazione, avvenuta secondo i Maya il 6 settembre del 3114 a.C. La mostra si avvale dunque di un’operazione di grande rilievo antropologico, ossia la decifrazione della scrittura dell’antico popolo americano.
Il percorso copre i tre grandi periodi (preclassico, classico e postclassico) che si collocano tra il 2000 a.C e il 1542 d.C. e che segnano la fioritura della civiltà Maya, rappresentata ad esempio dal Portastendardo, una delle migliori sculture del periodo postclassico, realizzata da un maestro proveniente da un complesso archeologico dello Yucatan che è stato incluso nel 2007 tra le sette meraviglie del mondo moderno; pensiamo anche alla Testa raffigurante Pakal il Grande, il più importante re dell’altrettanto considerevole sito archeologico di Palenque, nel Chiapas, o alla Maschera a mosaico di giada raffigurante un re divinizzato, indispensabile requisito “funerario” per il trapasso del defunto a un mondo nuovo, o alla Scultura di adolescente proveniente dal sito archeologico di Cumpich, maestosa scultura in pietra calcarea del periodo tardo classico, dalla superficie levigata e dalle forme sobrie.
La prima sezione tematica della mostra, Il corpo come tela, è dedicata alla decorazione dei corpi, molto amata dai Maya, sempre attenti a curare la bellezza del proprio corpo adornandolo con pitture, pettinature intricate e operazioni permanenti; all’aspetto fisico i Maya riservano anche trattamenti specifici ed esclusivi nelle festività. Le ragioni estetiche sono così importanti da assurgere a connotazioni identitarie e sociali: cicatrici, visi scarificati, teste dalle forme modificate artificialmente, occhi intenzionalmente strabici e fori su orecchie, labbra e naso, cambiano per sempre la vita degli individui e definiscono irreversibilmente il loro status.
Emblematico è il già citato Portastendardo, che cattura con maestria forme ed espressione umana: ivi notiamo la deformazione del capo, i lobi delle orecchie perforati, la rasatura dei capelli sulla fronte, i bracciali, i lacci sulle gambe e il pendente con il simbolo del vento (o dell’alito di vita); in un ritratto a stucco del summenzionato “re divino”, cioè K’inich Janahb’Pakal, rinvenuto nella sua camera funeraria, si notano l’accentuata deformazione cefalica, i capelli scalati sopra la fronte con la zona centrale rasata e l’acconciatura che ricorda foglie di mais, tutte caratteristiche che lo identificano con il dio del mais Bolon Mayel; scarificato, poi, tra le sopracciglia e la mandibola, il volto del giovane nella Scultura di adolescente, che mostra il suo corpo con gioia e sensualità, come provato dall’enfatizzazione delle dimensioni dei genitali (simbolo di fecondità).
La seconda sezione, Il corpo rivestito, è riferita all’importanza che l’abbigliamento riveste per i Maya. Esso infatti, con il suo vocabolario, esprime aspetti personali, culturali e sociali distintivi; per gli antichi cui ci riferiamo l’abito si fa portavoce dello status sociale del singolo. Gli esponenti del mondo agricolo, ad esempio, vestono con semplicità, come le donne con la blusa tradizionale (huipil), la gonna e la tunica, e gli uomini con un perizoma legato in vita e un lungo mantello sulle spalle. I nobili indossano invece costumi molto accessoriati: basti pensare ai pettorali cosparsi di pietre preziose e piume, alle cinture, alle collane, ai vari copricapi, ai broccati tinti di indaco, cocciniglia o porpora.
Il Giocatore di palla, scultura del periodo classico tardo, indossa ad esempio un elaborato pettorale effigiato, braccialetti, perizoma e una cintura simile ai gioghi con cui i giocatori di pelota si proteggono o lanciano più lontano la palla quando colpisce i fianchi; il gioco in questione, infatti, incarna profondi sentimenti religiosi perché rappresenta la battaglia quotidiana tra forze opposte. Dello stesso periodo è la terracotta con l’Uomo riccamente vestito, di cui notiamo l’estroso copricapo e la vistosa collana, o Monumento 147, in cui un prigioniero di alto rango, legato e sottomesso, indossa un grande cappello e orecchini di carta; l’iscrizione sul petto lo indica come suddito del signore K’uy Nic Ajaw, del regno di Copán (Honduras). Il tema bellico, infatti, è particolarmente rilevante nell’arte e nell’iconografia maya durante il periodo classico, quando la guerra si traduce in un simbolo di autorità e molte pitture e sculture si incentrano sulle immagini di prigionieri nobili, provenienti da altre città.
La controparte animale, terza sezione della mostra, si incentra sulla sacralità degli animali, che nel simbolismo religioso della cultura maya incarnano energie divine che interagiscono con gli esseri umani. Essi sono mediatori tra gli dei e gli uomini, alter ego e protettori di questi ultimi, che superano nella forza fisica e vitale poiché possono vedere a grandi distanze, volare e sopravvivere sott’acqua. Non solo: i governanti maya credono di poter rafforzare il proprio potere ricorrendo a forze ultraterrene che consentono alle loro wayo’ob (anime) di oltrepassare il corpo durante la notte e di spostarsi ovunque trasformandosi in creature fantastiche dall’aspetto animalesco.
In mostra quindi un Piatto con airone in terracotta, un fischietto a forma di tacchino (Tacchino), o il Piatto con uccello Moan (gufo), l’Anatra, che i Maya considerano animale portatore dell’anima dei defunti, di semi per la fertilità e messaggero di spiriti e dei; il Vaso a forma di scimmia o la Pipa con l’effigie di una scimmia, considerata personificazione della scrittura, della danza e del canto per il suo carattere chiassoso, nonché custode della saggezza e della conoscenza del mondo metafisico; ma troviamo anche un armadillo, tassi, tartarughe, serpenti, cani, rane, conigli.
La quarta sezione, I corpi delle divinità, si riferisce al pantheon maya, che include rappresentazioni di divinità ed entità sacre. Essi incarnano grandi poteri o sono semplici custodi di piccole piante, ruscelli e montagne; mescolano aspetto umano e animale, elementi naturali o fantasiosi, sono l’espressione materiale e spirituale del creato e a loro sono ricondotti i fenomeni ambientali più spaventosi. Le divinità possono essere ermafrodite, giovani e anziane al contempo, creative o nefaste, oppure composite, cioè risultato della stratificazione di più divinità, che i Maya sanno rappresentare con plasticità e perizia.
Ammiriamo ad esempio la scultura che raffigura il volto di k’iin, il sole, che crea contemporaneamente lo spazio e il tempo (Elemento architettonico), o Chaahk, divinità della pioggia, dal naso oblungo e le zanne animalesche, o la terracotta con Itzamnaaj sopra una tartaruga, in cui il soggetto è raffigurato come un anziano poiché dio supremo del pantheon maya e creatore di ogni cosa; e ancora, Ixchel con coniglio, “la signora dalla pelle bianca”, madre della pittura, dell’arcobaleno e degli animali.
Ecco dunque in mostra, tra frammenti di testi, antichi ambienti e multiformi tracce di creatività, un coinvolgente racconto di duemila anni di storia, quella di un popolo che non ha mai cessato di incuriosire e avvincere.