A Brescia prosegue, fino a domenica 9 giugno, la mostra curata da Francesca Dini e Davide Dotti con protagonisti “I Macchialioli” quel gruppo di giovani pittori, nella Firenze del secondo Ottocento, capaci di dare vita a una delle più originali e innovative avanguardie artistiche europee del Diciannovesimo secolo.
Una mostra imperdibile perché formata da oltre cento opere provenienti in gran parte da collezioni private, quindi, solitamente inaccessibili, riunite allo scopo di raccontare i diversi momenti della ricerca, i luoghi – il Caffè Michelangiolo di Firenze, Castiglioncello, Piagentina, la Maremma e la Liguria – il confronto con gli altri artisti e con le diverse scuole pittoriche europee. Ancora: gli smarrimenti, la capacità di mettersi collettivamente in discussione e di sterzare – se necessario – il timone per proseguire sulla strada del progresso e della modernità senza abbandonare mai la via maestra della luce e della macchia.
Esposti capolavori come Il mercato di san Godenzo e Pro patria mori di Giovanni Fattori, insieme alla Gabbrigiana in piedi di Silvestro Lega, a Il mattutino di Cabianca e a Una via del mercato vecchio a Firenze di Telemaco Signorini conducono il visitatore al finale approdo novecentesco di questi grandi maestri. “Per la prima volta – ha sottolineato Francesca Dini – la mostra storicizza l’evoluzione della poetica macchiaiola in senso naturalista, messa in atto dai macchiaioli di seconda generazione: Angelo e Adolfo Tommasi, Francesco e Luigi Gioli, Egisto Ferroni, Niccolò Cannicci ed Eugenio Cecconi, attraverso il serrato dialogo con la critica del tempo: La scaccia delle anitre di Angelo Tommasi, Ritorno dalla fonte di Egisto Ferroni, Acquaiola di Francesco Gioli sono opere emblematiche di questo nuovo indirizzo che ebbe il placet degli anziani macchiaioli e il sostegno del critico e uomo di stato Ferdinando Martini”.
Sempre la Curatrice, nel saggio “I Macchiaioli, dagli anni dell’avanguardia al Novecento” (edito nel catalogo Silvana, che accompagna l’evento espositivo) scrive: ‹Nel settembre del 1859 il toscano Cristiano Banti e il veronese Vincenzo Cabianca pittori ed amici, partirono da Firenze per visitare le terre lombarde appena liberate dal giogo austriaco ed annesse al nascente Stato Italiano: essi transitarono da Solferino, teatro della cruenta battaglia e si soffermarono a San Martino per omaggiare il sacrificio dei molti giovani loro coetanei periti in battaglia. Ancor prima dunque che questo lembo del territorio bresciano assumesse l’aspetto che oggi conosciamo con la costruzione della grande Torre Monumentale, molti patrioti – e tra di essi i Macchiaioli toscani – ne avevano già fatto un luogo identitario, oltre che di memoria e di pellegrinaggio.
A nutrire gli animi di Banti e Cabianca e dei loro compagni Telemaco Signorini, Giovanni Fattori, Silvestro Lega, Odoardo Borrani, Raffaello Sernesi, Giuseppe Abbati, Vito D’Ancona, Serafino De Tivoli, Adriano Cecioni (cui si uniranno poi anche Giovanni Boldini, Federico Zandomeneghi e Nino Costa) non era tuttavia soltanto la fede patriottica, bensì la certezza che fosse venuto il momento di dare un’arte nuova all’Italia nascente e per questo, già dal 1855, nelle fumose stanze del fiorentino Caffè Michelangiolo, questi giovani, che provenivano da diverse regioni della penisola, si erano sentiti tutti “toscani” per elezione e per cultura ed avevano dato vita ad un ardente dibattito, dal quale di lì a breve sarebbero emerse, nello stupore dei compagni più conservatori e ostili al nuovo, i termini “macchia” e “realismo” e la volontà di essere “pittori/artefici del proprio tempo”, testimoni dell’epoca loro contemporanea.
Alle origini della loro avventura i Macchiaioli – senza minimamente tralasciare quei valori etici dell’epopea risorgimentale di cui la loro arte si nutriva anzi profondamente – intercettarono l’afflato del pensiero positivista che andava diffondendo in Europa la fiducia nella conoscenza scientifica e nel progresso tecnologico; e la certezza che il metodo scientifico potesse essere applicato a tutte le sfere della scienza e della vita umana; inoltre, il pensiero positivista opponeva al principio romantico dell’ideale quello di una realtà conoscibile.
Gli scritti di Darwin introducevano il concetto di evoluzione, chiave di interpretazione della storia stessa dell’umanità. I Macchiaioli seppero dunque inserirsi nel processo di democratizzazione dell’arte avviato dalla comunità di pittori operosa nel villaggio di Barbizon, non lontano da Parigi, e portato avanti da Gustave Courbet: alla rappresentazione degli eroi e dei grandi avvenimenti della storia passata, tutti questi artisti preferivano la realtà domestica e quotidiana delle comunità rurali e dei vicini pascoli, colti dal vero, en plein air. Fatto proprio questo importante incipit al rinnovamento dei contenuti dell’arte, i toscani si concentrarono allora sul perfezionamento dello strumento espressivo, la “macchia”, grazie alla quale il percorso evolutivo della pittura italiana compì un decisivo progresso. Così, a Firenze, tra il 1855 e il 1867 i Macchiaioli dettero vita ad una originale avanguardia artistica, scrivendo una delle pagine più alte della storia dell’arte europea del XIX secolo.
Figli del positivismo, i Macchiaioli dunque si sentirono parte di un processo evolutivo che, superando le premesse accademico-romantiche della prima metà del secolo, si era incamminato sulla via della realtà e della luce. Una volta raggiunti i propri obbiettivi estetici, essi guardarono dinnanzi a sé e cercarono di vivificare la propria ricerca con nuovi fermenti, accogliendo i suggerimenti della critica contemporanea – da Ferdinando Martini a Enrico Panzacchi – e supportando l’aprirsi dei più giovani del gruppo alle istanze del naturalismo internazionale.
La seconda generazione macchiaiola – quella dei Gioli, di Cannicci, di Cecconi, di Ferroni, dei Tommasi – dichiarando la propria fedeltà ai principi del Vero in continuità con i loro amati maestri, operarono inconsapevolmente una scelta di campo latamente “conservatrice” che portò alla rinascita del quadro d’atelier, spesso di grandi dimensioni, quasi sempre manifesto di umanità e di toscanità. I tempi storici ormai mutati, il chiudersi nel 1870 dell’epopea risorgimentale svincolavano del resto l’artista dall’impegno civile e patriottico. Il concetto courbettiano di realtà come sintesi dinamica di natura e storia, principio fondante della poetica dell’avanguardia macchiaiola, illanguidiva: la realtà non era più evocata, bensì descritta, dunque la tecnica della “macchia” necessariamente andava a stemperare il suo originario vigore e la innata potenza di sintesi per assecondare la vocazione narrativa della nuova pittura.
Una pittura nuova, caratterizzata dalla sua appartenenza ad una precisa regione geografica e alla sua cultura artistica; ma capace di dialogare con le diverse scuole internazionali che praticavano la pittura del vero (basti ricordare i francesi Jules Breton, Jules Bastien-Lepage, P.A.J. Dagnan-Bouveret, Leon Lhermitte, i tedeschi Hans Herrmann e Max Liebermann).
La sperimentazione della luce che aveva “innescato” la rivoluzione dei primi Macchiaioli divenne fatto non primario per i giovani toscani; mentre gli impressionisti francesi, proseguendo su quella via e facendo tesoro degli studi ottici del chimico Michel Chevreul, davano vita nel 1874 al loro rivoluzionario movimento: caddero così nel vuoto i richiami del critico Diego Martelli che esortava i toscani a percorrere “i nuovi orizzonti nella ricerca del vero” dischiusi dalle scoperte dell’impressionismo.›