“Vorrei saper proclamare la dolcezza di fissare sulla tela le anime estatiche e ferme, le cose immobili e mute, gli sguardi lunghi, i pensieri profondi e limpidi, la vita di gioia e non di vertigine, la vita di dolore e non di affanno”.
(Felice Casorati)
La rassegna monografica che la Fondazione Magnani-Rocca di Mamiano di Traversetolo (PR) dedica all’arte di Felice Casorati (Novara, 1883 – Torino, 1963) dal 18 marzo al 2 luglio 2023, dal titolo Felice Casorati. Il concerto della pittura, segue attraverso un’ottantina di opere tutta la parabola creativa di un artista che ha rappresentato una delle voci più significative nella pittura tra gli inizi del XX secolo e il secondo dopoguerra. Il percorso espositivo documenta ogni stagione della pittura di Casorati, a iniziare dalla sofisticata cultura visiva derivata dallo studio dell’antico e dai modelli raffinati del naturalismo e del simbolismo propri della pittura di Gustav Klimt e dell’ambiente delle Secessioni. Particolare attenzione è dedicata alla produzione degli anni Venti, quando il Ritorno all’ordine comporta una rilettura e meditazione dei modelli classici in tutta la pittura europea. Nell’ordinamento cronologico del percorso si aprono finestre tematiche di approfondimento che si proiettano verso periodi successivi nell’intento di cogliere l’essenza di quello che l’artista definì il «complicato intreccio formato dallo svolgersi della mia pittura».

Presentata alla Biennale veneziana del 1912, Le signorine è una grande composizione allegorica in cui quattro giovani donne simboleggiano le diverse declinazioni della femminilità. Un’opera raffinata, simbolica e misteriosa, che l’autore descriveva nel catalogo dell’Esposizione: «Un quadro grande ha il titolo ‘Le signorine’: quattro figure allineate, quattro simboli e quattro realtà insieme con il commento di cose e colori… Un quadro di intonazione chiarissima, all’aria aperta – mattinale – di effetto strano e forse a prima vista poco comprensibile». Il clima è già quello di un realismo magico ante litteram, con le atmosfere sospese che caratterizzeranno la produzione di Casorati negli anni Venti. Alla Biennale successiva l’artista torna con tre dipinti, tutti di carattere simbolista, con i quali esplora la spiritualità femminile, come ne La via lattea (Le tre età), una visione notturna in cui le tre fasi della vita si confrontano con il magico mistero dell’Universo.

In una serie di dipinti del 1921 – Le due sorelle, Fanciulla col linoleum, Maschere – il perfetto e immoto equilibrio tra misura, ordine, malinconia e mistero che costituisce la sigla distintiva dell’arte di Casorati nel periodo tra le due guerre, si esprime attraverso immagini dai toni sommessi e dalle forme chiuse e nettamente definite, come nelle figure femminili protagoniste de Le due sorelle – noto anche come Libro aperto e libro chiuso – dove i corpi appaiono bloccati in una fissità che li priva di vita, trasformandoli in manichini o personaggi di un ideale museo delle cere, illuminati da una luce innaturale e spietata come quella di un flash fotografico.

Le due sorelle appare preludere al ritratto di Silvana Cenni, in cui trova la sua massima espressione quel richiamo alla pittura del Quattrocento che già da qualche tempo aleggiava nelle ricerche figurative di Casorati: ne Le uova sul cassettone, del 1920, il riferimento alla metafisica di de Chirico – che proprio in quell’anno iniziava a porre i fondamenti teorici del movimento nella rivista Pittura metafisica – si coniuga con lo sguardo rivolto alla pittura di Piero della Francesca, in particolare alla pala di Brera, dove un uovo di struzzo pende dal soffitto del catino absidale sovrastando il volto della Madonna, quasi un contrappunto alla pura geometria della sua forma.

Nel ritratto di Silvana Cenni il riferimento al modello pierfrancescano è chiaramente esplicito: sullo sfondo, alle spalle della figura, ieratica nella posizione e con il volto dal perfetto ovale, appare uno scorcio urbano che ricorda le vedute di città ideale dipinte nel Quattrocento, prima fra tutte la tavola conservata a Urbino e attribuita nel tempo ad alcuni degli artisti che lavorarono alla corte dei Montefeltro. Con la Città ideale urbinate il dipinto di Casorati ha in comune la luce cristallina, che disegna nitide ombre sul volto e sull’abito della modella, mettendone in risalto i valori plastici e allo stesso tempo esaltando il realismo della raffigurazione, fino a spingerlo al di là della realtà stessa, in un immoto spazio siderale fuori da tempo.

Dal 1926 inizia fra Casorati e il compositore Alfredo Casella un carteggio che continuerà per lungo tempo. In questo anno il pittore ritrae Casella, che riunisce nella sua casa-studio romana una collezione di dipinti di Casorati stesso e di altri autori contemporanei, scelti con criteri ben precisi. In una lettera ad Antonio Donghi, uno dei maggiori esponenti di quel Realismo magico che al momento rappresentava la novità più interessante nel panorama della pittura italiana, il compositore dichiara infatti: «ho viva passione per la pittura e raccolgo quadri di pittori i quali seguono, nella loro arte e nelle loro ricerche, la medesima tendenza mia». Quasi a voler sottolineare questa affinità di vedute e di intenti, Casella dedica a Casorati una sua composizione, il Concerto romano.

Tra i dipinti presentati alla Biennale veneziana del 1928, Beethoven rielabora il tema dello specchio: solo la figura della bambina vestita di bianco si riflette nello specchio alle sue spalle, mentre nessun altro elemento della composizione – il tavolo con sopra lo spartito, il cagnolino che siede al suo fianco – vi compare, mentre lo spazio retrostante è suggerito dalla chitarra appoggiata in un angolo e tagliata esattamente a metà dalla cornice dello specchio stesso. Un tema, quello dello specchio, che già l’artista aveva messo in scena nella Natura morta con manichini del 1924, dove giocava con l’ambiguità spaziale propria delle immagini riflesse che qui si focalizza tutta sullo “sdoppiamento” della figura infantile. La bambina, a sua volta, rivolge uno sguardo interrogativo verso qualcosa o qualcuno alle spalle di chi guarda, accrescendo il senso di mistero che emana dal dipinto.

Nella mostra alla Fondazione Magnani-Rocca è presente un capolavoro che suscitò numerosi interrogativi da parte della critica già alla sua prima esposizione in pubblico nel 1926 alla Permanente di Milano. Qui, dove nell’ambito della prima mostra del Novecento italiano, gli oltre cento artisti invitati offrivano una panoramica della “nuova arte in Italia”, apparve sconcertante già il titolo, Conversazione platonica, attribuito a un dipinto in cui una modella nuda, dalla posa sensuale che richiama le Veneri tizianesche o i nudi di Ingres, è osservata da vicino da un uomo che le siede accanto, nascondendo il volto sotto l’ala del nero cappello e creando un netto contrasto con la luminosità delle nude carni, che appare quasi un omaggio al Déjeuner sur l’herbe di Manet. In un’intervista, alla richiesta di spiegare il significato dell’opera, l’artista precisava: «Significato? Ma non v’è alcun significato. La cosa è andata così. Io avevo una splendida modella e la studiavo per la sua bellezza e per certi toni violacei delle carni, che erano cosa mirabile e inconsueta. Un giorno entrò un amico con quell’abito e con quel tubino e s’accostò alla donna. Io non so bene che emozione provai, ma vidi il quadro, il quadro da dipingere e non da interpretare».