«Dopo un anno difficile come il 2020, la mostra vuole dare un segnale di ripartenza per la vita sociale e culturale di Firenze e della Toscana, in primo luogo per il nostro pubblico locale ma anche come offerta per i visitatori nazionali e internazionali . “American Art 1961-2001
” si pone come un grande evento culturale che celebra l’arte americana affrontando anche importanti temi come le lotte per i diritti civili e il ruolo della donna nell’arte: un progetto originale e suggestivo per una rinnovata riflessione sull’idea di “American Dream” grazie alle opere di artisti che ridefiniscono il ruolo e le possibilità dell’arte, anche come strumento per affrontare e mettere in luce questioni e contraddizioni che toccano la politica, la società e l’identità individuale, americane e non solo
».
Così Arturo Galansino, Direttore Generale della Fondazione Palazzo Strozzi, sintetizza la mostra che celebra l’arte moderna degli Stati Uniti d’America con oltre ottanta opere dei maggiori artisti attivi in quei quattro decenni che hanno visto anche il cambiamento del millennio.

Curata da Vincenzo de Bellis (Curator and Associate Director of Programs, Visual Arts, Walker Art Center) e dallo stesso Galansino, la mostra propone una ragionata selezione, per un percorso attraverso importanti e iconiche opere di personalità e movimenti che hanno segnato l’arte a stelle e strisce tra due momenti storici decisivi, l’inizio della Guerra del Vietnam e l’attacco al World Trade Center di New York.
Tutte provenienti da Minneaoplis dalle collezioni del museo-culto dell’arte contemporanea, la mostra racconta quarant’anni di storia attaverso una moltitudine di espressioni – tra pittura, fotografia, video, scultura e installazioni – affrontando temi oggi fondamentali.

Con un andamento cronologico viene ripercorso il periodo più intenso della storia artistica degli Stati Uniti e, al contempo, riflette tale arco temporale: il 20 gennaio 1961 John F. Kennedy diventa presidente e l’11 dicembre inizia ufficialmente la guerra del Vietnam con i primi elicotteri americani che arrivano a Saigon; l’11 settembre del 2001, sotto la presidenza di George W. Bush, quasi tremila persone muoiono nel più drammatico attacco sul suolo americano dopo Pearl Harbor.
Due 11, due date che segnano cone spartiacque la storia degli Stati Uniti quale superpotenza politica e caratterizzano anche un’epoca di sperimentazione senza precedenti per l’arte di cui l’America diviene punto di riferimento a livello globale. Il percorso espositivo lo traccia attraverso le opere di cinquntatre autori (ventisette viventi) di cui quattordici artiste. Tra loro sei afroamericani, due nativi americani e un ispanico.

Attenzione speciale è data ad alcune figure chiave  con il ruolo centrale di Andy Warhol, di cui sono presenti dodici lavori tra cui la celebre Sixteen Jackies (1964), dedicata a Jackie Kennedy all’indomani dell’assassinio del marito.
Una sezione speciale è dedicata al padre della danza contemporanea, Merce Cunningham, la cui ricerca è presentata attraverso grandi installazioni nate dalla collaborazione con Robert Rauschenberg e Jasper Johns.

La grande stagione degli anni Sessanta è testimoniata da opere di maestri come Donald Judd, Robert Morris, Bruce Nauman, John Baldessari: figure che diventano punti di riferimento per le successive generazioni di artisti che ridefiniscono le nuove possibilità dell’arte. Tra queste emergono la riflessione sulla figura della donna di Cindy Sherman, le appropriazioni dal mondo della pubblicità di Richard Prince e Barbara Kruger, la denuncia dello stigma dell’AIDS di Felix Gonzalez-Torres o le inquietanti narrazioni posthuman di Matthew Barney, di cui è presentata in maniera inedita per l’Italia l’installazione di Cremaster 2 (1999), controversa opera dedicata a un assassino che richiese per sé stesso la pena di morte.

Focus speciale della mostra è infine quello dedicato alle più recenti ricerche degli anni Novanta e Duemila, tra cui spiccano figure di riferimento per la comunità afroamericana quali Kerry James Marshall e Glenn Ligon o artisti che investigano in modo totalmente originale l’identità americana come Paul McCarthy, Mike Kelley, Jimmie Durham e Kara Walker, della quale è proposta un’ampia selezione di opere video e disegni che testimoniano la sua suggestiva ricerca tra storia e satira sociale intorno ai temi della discriminazione razziale.

Ancora Arturo Galansino, spiega come l’esposizione consolidi la ricerca di Palazzo Strozzi sull’arte moderna americana chiedendo una trilogia dedicata a momenti fondamentali della storia artistica degli Stati Uniti d’America: «Le due precedenti rassegne sottolineavano i rapporti tra la cultura europea e quella americana, soprattutto a vantaggio della prima. “Americani a Firenze” (2012) era incentrata sui pittori di fine Ottocento e inizio Novecento, quali John Singer Sargent o i Ten American Painters, che accolsero il linguaggio impressionista e soggiornarono a lungo in Italia, mentre “La grande arte dei Guggenheim” (2016), con capolavori dell’arte europea e americana dagli anni Venti agli anni Sessanta del Novecento, ricostruiva i legami, non solo culturali, tra le due sponde dell’Atlantico attraverso le vite, e le raccolte, di Peggy e Solomon Guggenheim.

In una sorta di passaggio di testimone, l’avvio stesso della mostra odierna, con opere di Joseph Cornell, Mark Rothko e Louise Nevelson, ci ricollega al mondo di Peggy Guggenheim, la straordinaria mecenate che, mentre lascia l’Europa nel 1941 con la sua collezione per sottrarsi al nazismo, rende possibile la fuga dall’orrore del conflitto di molti artisti e intellettuali europei, “traghettando” nel Nuovo le avanguardie del Vecchio continente.


Una delle opere protagoniste della mostra dedicata ai Guggenheim, la Bôite-en-valise di Marcel Duchamp (1941) – in cui l’artista francese riunisce in formato ridotto le opere eseguite sino ad allora per rendere trasportabile la loro storia – è emblema di questo passaggio. Nonostante non ci siano opere di Duchamp nell’odierna selezione, il suo spirito rivoluzionario aleggia ancora nelle sale di Palazzo Strozzi, essendo stato egli figura di riferimento per le nuove generazioni di artisti americani, come dimostrano snodi centralissimi del percorso espositivo, quali Walkaround Time (1968) di Jasper Johns – trasposizione del Grand Verre duchampiano in scenografia di plastica per un balletto di Merce Cunningham con musica di David Behrman e costumi dello stesso Johns – oppure Fountain (1991), orinatoio in bronzo dorato di Sherrie Levine, omaggio al più iconico dei ready made di Duchamp del 1917.

Ma al di là di queste citazioni dirette, il padre dell’arte concettuale è, nel modo più ampio e profondo, il padre nobile delle nuove generazioni di artisti del nuovo mondo. Alcune parole del grande artista-scacchista ci aiutano a comprendere meglio la profonda differenza culturale tra i due mondi, in particolare rispetto al pesante confronto con la tradizione così caratteristica dell’arte europea.


Parlare di questi decenni di produzione artistica negli Stati Uniti, durante quarant’anni di incontrastata egemonia mondiale americana a livello politico militare ed economico, vuol dire ripercorrere fenomeni che hanno influito e cambiato il mondo intero, dal sistema dei consumi a quello dei costumi, dalla geopolitica ai diritti civili. Un viaggio che parte dalle speranze incarnate dalla “nuova frontiera” di JFK, illimitata, morale e immaginaria e giunge, per non terminare mai, in sella ai cavalli o alle Harley-Davidson di Richard Prince, a un “West” che evoca l’infinita epopea di un continente; dal supermarket Pop e dal viso affranto di Jackie straniato dai colori di Andy Warhol, alle silhouette delicate e violentissime di Kara Walker, che si proiettano su uno sfondo in cui emergono voci per troppo tempo escluse dalla narrazione principale.

La mostra si ferma all’inizio del nuovo millennio, all’attacco alle Twin Towers che cambiò il mondo, portando nelle nostre vite lo spettro del terrorismo globale, la preventive war e una nuova fase della pax americana. 
Vent’anni dopo, la pandemia di Covid-19 ha stravolto il pianeta con velocità e estensione inimmaginate, proprio mentre gli Stati Uniti hanno progressivamente perso terreno nel loro incontrastato ruolo di guida e di prima economia globale.

Alla luce del tempo che stiamo vivendo, con un’America sotto i riflettori all’avvio della nuova leadership democratica, e posta di fronte a enormi sfide, interne e globali, e a nuove spinte di rinnovamento sociale intensificatesi in seguito alla tragica morte di George Floyd, avvenuta proprio a Minneapolis, rileggere questo percorso può essere oggi di grande attualità
».
Il catalogo è edito da Marsilio Editori, Venezia.

Dettagli

DIdascalie immagini

  1. Louise Nevelson (Leah Berliawsky; Pereyaslav, Impero russo 1899-New York 1988),
    Sky Cathedral Presence, 1951-1964, legno, vernice, cm 310,5 x 508 x 60,6.
    Minneapolis, Walker Art Center.
    Dono Judy e Kenneth Dayton, 1969
    © Estate of Louise Nevelson
  2. Robert Indiana (Robert Clark; New Castle, Indiana 1928-Vinalhaven, Maine 2018),
    The Green Diamond Eat The Red Diamond Die, 1962, olio su tela, cm 215,9 x 215,9 ciascuno.
    Minneapolis, Walker Art Center.
    Dono T.B.Walker Foundation, 1963
    Robert Indiana, The Green Diamond Eat The Red Diamond Die
    © Robert Indiana By SIAE 2021
  3. Grafico degli artisti presenti in mostra
  4. Andy Warhol (Andrew Warhola Jr.; Pittsburgh, Pennsylvania 1928-New York 1987),
    Sixteen Jackies, 1964,
    acrilico, smalto su tela,cm 204,2×165,9.
    Minneapolis, Walker Art Center.
    Art Center Acquisition Fund, 1968.
    © The Andy Warhol Foundation for the Visual Arts Inc
  5. Claes Oldenburg (Stockholm 1929),
    Shoestring Potatoes Spilling from a Bag, 1966, tela, kapok, colore acrilico, cm 274,3 x 132,1 x 101,6.
    Minneapolis, Walker Art Center.
    Dono T.B. Walker Foundation, 1966.
    © 1966 Claes Oldenburg
  6. Bruce Nauman (Fort Wayne, Indiana 1941),
    Art Make-Up, 1967-1968, pellicola da 16mm (colore, muto, sonoro) trasferita su video, 40’.
    Minneapolis, Walker Art Center.
    T.B. Walker Acquisition Fund, 2002.
    © Bruce Nauman by SIAE 2021
  7. Roy Lichtenstein (New York 1923-1997),
    Artist’s Studio No. 1 (Look Mickey), 1973, olio, vernice Magna, sabbia su tela, cm 244,2 x 325,4.
    Minneapolis, Walker Art Center.
    Dono Judy e Kenneth Dayton e T.B. Walker Foundation, 1981.
    © Estate of Roy Lichtenstein
  8. Richard Prince (Panama 1949),
    Untitled (Cowboy), 1980-1983, stampa cromogenica, edizione: P.A. 1/2 da una serie di 10, cm 61 x 50,8.
    Minneapolis, Walker Art Center. Dono Lewis S. Baskerville, 2016.
    © Richard Prince
  9. Kerry James Marshall (Birmingham, Alabama 1955),
    Blind Ambition, 1990, acrilico, collage su tela, cm 218,8 x 142,2.
    Minneapolis, Walker Art Center. Dono RBC Wealth
    Management in onore di John Taft, 2016.
    © Kerry James Marshall. Courtesy of the artist and Jack Shainman Gallery, New York
  10. Sherrie Levine (Hazleton, Pennsylvania 1947),
    Fountain (after Marcel Duchamp: A.P.), 1991, bronzo, edizione: P.A. 1, edizione di 6, cm 36,8 x 36,2 x 63,5.
    Minneapolis, Walker Art Center. T.B. Walker Acquisition Fund, 1992.
    © Sherrie Levine. Courtesy the artist and the Walker Art Center, Minneapolis
  11. Felix Gonzalez-Torres (Guáimaro, Cuba 1957-Miami 1996),
    “Untitled” (Last Light), 1993, lampadine, cavo elettrico, prese elettriche in plastica, interruttore dimmer, edizione: 14/24.
    Minneapolis, Walker Art Center.
    Dono Gilbert e Lila Silverman, Detroit, Michigan, 2003
    Pubblicato da A.R.T. Press, Los Angeles e Andrea Rosen Gallery, New York
    Felix Gonzalez-Torres, “Untitled” (Last Light)
    © Felix Gonzalez-Torres. Courtesy of the Felix
    Gonzalez-Torres Foundation
  12. Matthew Barney (San Francisco 1967),
    Cremaster 2: The Drones’ Exposition, 1999.
    Minneapolis, Walker Art Center. Collection Walker Art Center and San Francisco Museum of Modern Art, T.B.
    Walker Acquisition Fund, 2000. © 1999 Matthew Barney
    Production still: © 1999 Matthew Barney, Photo: Chris Winget, Courtesy Gladstone Gallery, New York and Brussels

In copertina un particolare di:
Cindy Sherman (Glen Ridge, New Jersey 1954),
Untitled#92, 1981, stampa cromogenica a colori, edizione: P.A. 1/2 da una serie di 10, cm 61 x 121,9.
Minneapolis, Walker Art Center. Art Center Acquisition Fund, 1982.
© Cindy Sherman. Courtesy the artist and the Walker Art Center, Minneapolis

Le sezioni del percorso espositivo

(courtesy Fondazione Palazzo Strozzi)

  • Sezione 1 – Sala 1 – CHANGES
    Questa sala rappresenta un ponte tra passato e futuro, tra Vecchio e Nuovo Mondo. Louise Nevelson e Mark Rothko, entrambi nati in Europa e trasferiti negli Stati Uniti ancora bambini, sono accomunati da una visionarietà di matrice ebraica che si traduce in un senso religioso e mistico dell’arte. Negli anni Quaranta entrambi facevano parte dell’ambiente newyorchese di Peggy Guggenheim, così come Marcel Duchamp, francese naturalizzato statunitense e artista simbolo del traghettamento tra i due mondi. Lo spirito rivoluzionario del padre dell’arte concettuale aleggia in tutta la mostra, essendo egli stato figura di riferimento per le nuove generazioni americane. Di questo ambiente faceva parte anche Joseph Cornell, artista dallo sguardo poetico rivolto al Vecchio Continente. Guarda al futuro invece la ricerca di Bruce Conner sia dal punto di vista formale che concettuale, anticipando temi quali l’interdisciplinarietà e la rottura con la tradizione modernista, sviluppatisi successivamente nella produzione artistica americana, e portando avanti un percorso di emancipazione dalla cultura europea alla ricerca di una identità propria.
  • Sezione 3 – Sala 2 – POPS
    La Pop Art americana ha segnato un’epoca, diffondendo il mito del “sogno americano”, spettacolarizzando la società e la vita quotidiana, superando così le emozioni individuali rappresentate dall’Espressionismo astratto. Si voleva riportare l’arte a un confronto diretto con la realtà, privandola della mediazione personale e rendendola anonima attraverso la reiterazione e la ripetitività. Sono qui esposte opere dei più importanti esponenti della Pop Art, a partire da Andy Warhol e dai suoi temi ricorrenti: le celebrità, i mass media e la diffusione delle immagini, la preoccupazione per la morte, la serialità. «Non è forse la vita una serie di immagini, che cambiano solo nel modo di ripetersi?» si chiede Warhol. Altra figura chiave è Roy Lichtenstein, il cui stile inconfondibile deriva dal retino tipografico, che utilizza le immagini dei fumetti e rivisita l’arte del passato. A differenza di Warhol, che inizia a dipingere passando poi alla riproduzione serigrafica, Lichtenstein continua a lavorare a mano, ancora interessato al gesto pittorico. In un periodo di espansione economica come gli anni Sessanta, dominato dal consumismo, in Oldenburg gli stessi oggetti di consumo, riprodotti e straniati, diventano arte, mentre Robert Indiana trae ispirazione dal mondo dei segni pubblicitari e dei marchi commerciali ma – al contrario degli altri – è esplicitamente critico nei confronti della cultura contemporane
  • Sezione 2 – Sala 3a-b – CROSSING BOUNDARIES
    La seconda parte della sala è dedicata a quattro icone dell’arte americana – Merce Cunningham, John Cage, Robert Rauschenberg e Jasper Johns – e rievoca alcune delle più importanti collaborazioni tra queste personalità che hanno rivoluzionato i rispettivi campi di danza, musica e arte visiva, dando vita a un nuovo modello di interazione tra discipline. Cunningham ha trasformato la danza nel Novecento, ma soprattutto è stato uno dei primi artisti interdisciplinari e aperti a collaborazioni, uno dei modelli di maggior successo per un’arte realmente intermediale. Ne sono esempi cruciali gli elementi di scena per Minutiae (1954-1976) e Walkaround Time (1968), ideati prima che le coreografie fossero finite, senza dare indicazioni a Rauschenberg e Johns tranne quella di creare qualcosa intorno a cui i danzatori potessero muoversi. Il processo di concepire la coreografia indipendentemente dai progetti dei collaboratori è diventato il metodo di lavoro preferito da Cunningham, che ha permesso a danza, musica e arte visiva di mantenere la propria autonomia, riuscendo però poi a fondersi sulla scena. La prima parte della sala accoglie un focus su Ellsworth Kelly con alcune delle sue opere più significative che – con la loro astratta eleganza formale e rigorosa – rappresentano un momento di passaggio verso le opere minimaliste della sezione successiva.
  • Sezione 4 – Sala 4 – LESS IS MORE
    Minimal e Pop sono le principali tendenze del cambiamento artistico degli anni Sessanta, caratterizzate, in opposizione all’Espressionismo astratto, dal raffreddamento gestuale ed emotivo e dalla tendenza verso un’arte impersonale che è anche reazione al dramma della guerra in Vietnam. Il Minimal è contraddistinto da forti differenze di approccio degli artisti, al punto che un artista come Frank Stella, che non ammetteva di far parte della corrente, è stato fondamentale per il suo sviluppo. Donald Judd ne redige una sorta di manifesto, descrivendo nuove opere tridimensionali, gli specific objects, che hanno aspetti sia della pittura che della scultura, senza essere né l’una né l’altra. Dan Flavin, che usa tubi al neon, e Fred Sandback che utilizza filato acrilico, rinunciano alla materia scolpendo direttamente lo spazio e formando ugualmente volumi. Sol LeWitt va nella direzione dell’Arte concettuale, interessato più alle idee che agli oggetti, mentre Judd e Carl Andre abbandonano lo studio ed esternalizzano la produzione delle loro opere, secondo una pratica che diventerà comune. Ann Truitt e Agnes Martin, le sole presenze femminili del Minimalismo in un mondo dominato da uomini, restano invece più legate alla produzione in studio ed enfatizzano l’intervento manuale. Nella sala sono esposti anche un feltro di Robert Morris, materiale non completamente controllabile dall’artista ed esempio iconico della Process Art che supera le rigidità minimaliste, e un’opera di Richard Serra, artista che enfatizza il processo fisico della produzione.
  • Sezione 5 – Sala 5 – NO MORE BORING ART: BRUCE NAUMAN
    Nel 1966, appena finita l’università, Bruce Nauman afferma: «Se sono un artista e se mi trovo all’interno di uno studio, vuol dire che qualsiasi cosa io faccia all’interno di questo studio è arte». Nauman inizia a farsi conoscere contemporaneamente alla diffusione della Pop Art, del Minimalismo, della Process Art e dell’Arte concettuale, e si confronta con tutti i movimenti senza mai perdere una propria specificità individuale; vive in autoisolamento pur essendo al centro del dibattito, ed è ancora riconosciuto come il più influente artista degli ultimi cinquant’anni. La sua lunga carriera viene qui presentata da un’opera che occupa l’intera sala, Art Make-Up: No. 1 White, No. 2 Pink, No. 3 Green, No. 4 Black, una videoinstallazione composta da quattro scene. Nauman appare inquadrato su uno sfondo bianco, senza camicia; immergendo le dita in un piatto si spalma la faccia e il corpo, che usa come una tela, con il colore fino a quando non sono coperti. Comincia col bianco, passa al rosa, al verde e infine al nero, stratificando ogni strato sopra i precedenti, in una fusione di pittura, scultura, installazione, video e performance. L’artista si maschera con il trucco (make-up), ma il titolo indica come questo gesto sia anche un crearsi (make-up nel senso di farsi, comporsi).
  • Sezione 5 – Saletta 6 – NO MORE BORING ART: JOHN BALDESSAR
    Ritenuto l’artista concettuale più influente degli Stati Uniti, John Baldessari utilizza tecniche e formati diversissimi quali libri, dipinti, installazioni, fotografie, video, sculture, cartelloni e opere pubbliche, per un’arte segnata dall’ironia, dall’irriverenza e dalla sperimentazione continua. Nel 1971 viene invitato a esporre al Nova Scotia College of Art and Design di Halifax, in Canada, ma mancano i fondi per pagare il viaggio, e Baldessari propone agli studenti di intervenire al suo posto, incaricandoli di scrivere «I will not make any more boring art» (non farò più arte noiosa) sulle pareti della galleria. Utilizzando gli studenti per ripetere continuamente la frase, Baldessari ironizza sulle scuole d’arte che incoraggiano i giovani a imitare invece che a sperimentare. Invia anche un foglio con la stessa frase scritta da lui – qui riprodotta come carta da parati – affinché gli studenti ne facciano delle stampe, riflettendo così sui temi dell’autorialità, dell’unicità dell’opera e del ruolo dell’artista. L’azione di scrivere sulle pareti della galleria riflette anche la sua critica verso la pittura tradizionale degli inizi degli anni Settanta e, con modalità caratteristiche dell’Arte concettuale come la ripetitività, afferma ironicamente che l’arte noiosa è proprio quella concettuale. I Four Short Films mostrano l’interesse di Baldessari per le attività quotidiane, filmate come se fossero istruzioni per esperimenti chimici e fisici
  • Sezione 8 – Saletta 7 – BIOGRAPHIES
    Nel 1981 il repubblicano Ronald Reagan diventa presidente degli USA e nello stesso anno viene scoperta l’esistenza di una nuova malattia, l’AIDS. Il suo governo conservatore è indifferente al problema, Reagan rifiuta persino di pronunciare la parola e la politica è caratterizzata dall’omofobia. Le comunità artistiche devastate dal virus rispondono con l’attivismo: tra l’altro nel 1987 viene fondata a New York l’AIDS Coalition to Unleash Power (ACT UP), che promuove la lotta alla malattia e si impegna perché vengano messe in atto politiche favorevoli ai malati. Due anni dopo all’Hoyt L. Sherman Gallery at Ohio State University si tiene la mostra AIDS: The Artists’ Response, il cui catalogo si apre con un testo che esorta «a intraprendere un’azione collettiva per porre fine alla crisi dell’AIDS». Ma è soprattutto con le opere che gli artisti esprimono – ciascuno con la propria poetica – l’orrore, la paura, la rabbia e il dolore legati all’essere gay in quel difficile periodo. Robert Mapplethorpe muore a quarantadue anni nel 1989, Felix GonzalesTorres trentanovenne nel 1996, per citare solo gli artisti le cui opere sono presenti in questa sala, ma in molti in quegli anni soccombono alla malattia. Robert Gober sopravvive, ed esprime il dolore e il trauma con lavori che uniscono autobiografia a storia sociale, mentre Jenny Holzer rilegge con occhi femminili i vissuti personali
  • Sezione 7 – Sala 8 – FROM PICTURES TO PICTURES
    Una generazione cresce negli anni Sessanta immersa nella cultura mediatica fra cinema, televisione, riviste, mondo pop e sempre più immagini – dei tumulti sociali, delle lotte per i diritti civili, delle atrocità della guerra del Vietnam – dominano la vita degli americani. Nel 1977 la mostra Pictures viene allestita in uno spazio alternativo di New York, Artists Space, e presenta artisti che nel loro lavoro avevano iniziato a esaminare il rapporto tra arte, mass media e società appropriandosi delle immagini per ri-creare opere originali. Tre anni dopo la galleria Metro Pictures, nel quartiere di SoHo, accoglie la mostra Pictures Generation. Il movimento, che ha dato vita a un linguaggio nuovo, è il primo in cui hanno un ruolo centrale le donne, grazie anche all’attivismo femminista dei decenni precedenti. Cindy Sherman si appropria dei ruoli femminili stereotipati nei film degli anni Cinquanta e Sessanta, Richard Prince isola soggetti desunti da contesti diversi assegnando loro significati più ampi, mentre Longo si distingue perché non utilizza immagini tratte dai mass-media ma fotografie da lui scattate appositamente. Sarah Charlesworth con la sottrazione del testo crea nuove letture di documenti storici, e la combinazione di parole e immagini viene utilizzata anche da Barbara Kruger e Jenny Holzer. Sherrie Levine usa la ri-produzione di opere di altri artisti, lavorando con fotografie, ma anche con pittura e scultura, come Fountain (after Marcel Duchamp: A.P.) con cui si appropria e rielabora il ready-made duchampiano del 1917.
  • Sezione 9 – Sala 9a – MORE VOICES
    Il 1993 è segnato dal ritorno di un presidente democratico alla Casa Bianca, Bill Clinton, dopo tre mandati repubblicani di Reagan e Bush. In quell’anno la Biennale al Whitney Museum – incentrata sul multiculturalismo, la politicizzazione degli artisti afroamericani, l’identità – è la prima grande rassegna di arte contemporanea in cui i maschi bianchi sono in minoranza, e si sceglie di dare priorità agli artisti allora “fuori dal sistema”. Le opere esposte affrontano alcune delle questioni chiave intorno all’identità di genere e alla politica interna negli Stati Uniti in quel momento, tra cui razzismo, AIDS, femminismo e disuguaglianze economiche. La rassegna apre le porte alla generazione di Glenn Ligon, Lorna Simpson, Kerry James Marshall, Jimmie Durham, tutti artisti le cui opere sono presenti in questa sala, insieme a quelle di Hock E Aye Vi/Edgar Heap of Birds. Durham, a lungo attivista politico dell’American Indian Movement, unisce riferimenti all’arte dei nativi americani quali il teschio di animale, il ramo, la conchiglia, assemblandoli in una struttura totemica che fa riferimento alle culture ancestrali, ma che per l’uso di moderni materiali di scarto si colloca nel presente. Ligon, per le sue opere realizzate con il normografo, utilizza brani di letteratura afroamericana con cui sfida pregiudizi su temi di razza e sessualità. Temi, quelli legati alle comunità sottorappresentate, affrontati anche da Lorna Simpson e Kerry James Marshall.
  • Sezione 9 – Sala 9b – MORE VOICES: MATTHEW BARNEY
    Negli anni Novanta emerge la figura di Matthew Barney, a lungo impegnato nella realizzazione del Cremaster Cycle (1994-2002), una storia epica che, raccontata attraverso cinque lungometraggi, va a comporre un’opera totale, popolata di personaggi ibridi, post-umani, dal corpo plasmabile e soggetto a trasformazioni biotecnologiche. Uno dei temi del ciclo è il processo biologico della maturazione sessuale che diviene metafora della creazione e della produzione artistica. Cremaster 2, secondo episodio narrativo ma quarto film realizzato, si ispira tra l’altro a The Executioner’s Song (La canzone del boia), che Norman Mailer nel 1979 aveva dedicato al caso di Gary Gilmore, colpevole di un duplice omicidio e giustiziato nel 1977 nello Stato dello Utah. Gilmore stesso scelse la fucilazione per versare il proprio sangue per ottenere così, secondo la sua fede mormone, l’espiazione dei peccati. Barney trasforma la vicenda e, collegandola alla presunta discendenza di Gilmore dal mago Houdini, costruisce un film surreale in cui, con il suo linguaggio immaginifico, esplora temi fondanti della cultura americana tra mito, violenza, religione e natura. Questo spazio che precede la sala di proiezione – progettato da Barney e presentato per la prima volta al Walker Art Center nel 1999 – è trasformato in un ambiente immersivo in cui sono esposti oggetti che appaiono nel film.
  • Sezione 10 – Sala 10 – GOING WEST
    La California è la meta del viaggio verso il West alla base del sogno americano: da oltre un secolo è centro della produzione cinematografica, negli anni Sessanta e Settanta ha attratto i “figli dei fiori”, pacifisti alla ricerca dell’amore libero, allucinogeni e controcultura hippy, ma ha anche assunto un ruolo centrale in ambito artistico. John Baldessari, col suo lungo insegnamento, prima al California Institute of Arts e poi all’Università della California di Los Angeles, ha formato generazioni di artisti e avuto un ruolo fondamentale per la scena californiana, molto diversa dal sofisticato mondo newyorkese. A seguito delle rivolte del 1992 che hanno infiammato Los Angeles, causate dalle violenze e dalle brutalità della polizia nei confronti di afroamericani, che non hanno poi trovato giustizia in tribunale, l’attenzione degli artisti si è concentrata su temi politici e sociali, quali le minoranze e le comunità LGBTQ. Mike Kelley e McCarthy – che sono tra le figure più rappresentative – denunciano il perpetuarsi delle disuguaglianze; Simmons affronta gli stereotipi della cultura popolare americana per esplorare le differenze di razza, cultura, politica e memoria; Catherine Opie parla di differenze sociali e di genere e Mark Bradford, nuova grande star dell’arte americana, viene scelto per rappresentare gli Stati Uniti alla Biennale veneziana del 2017.
  • Sezione 9 – Sala 11 – MORE VOICES: KARA WALKER
    La ricerca di Kara Walker ha segnato la fine del vecchio millennio e l’inizio del nuovo. Per la rilettura della storia americana nell’ottica di temi quali la schiavitù, le violenze fisiche e sessuali, le oppressioni, utilizza media differenti come collage, installazioni, disegni e acquerelli, video, scenografie, marionette. Costante, e sua cifra stilistica, l’uso delle silhouette di carta ritagliata, sagome nere nate in Europa per creare ritratti di profilo, utilizzate poi come passatempo dalle signore bianche degli Stati del Sud, cui l’artista ha però dato nuova vita e profondi significati. Rifacendosi a romanzi storici e a racconti tramandati oralmente, Kara Walker utilizza queste figure semplificate per narrare storie di stupri, violenze e sopraffazioni ambientate nelle piantagioni di cotone prima della guerra di Secessione: silhouette delicate e insieme violentissime. Do You Like Creme in Your Coffee and Chocolate in Your Milk? è composta di sessantasei pagine di disegni, acquerelli e testi che consentono descrizioni dettagliate dei personaggi, dei visi e dell’abbigliamento, impossibili da rendere con le silhouette. Cut – la drammatica immagine a grandezza naturale di una donna nera che si taglia le vene dei polsi dopo essere stata violentata – affronta il ruolo delle donne di colore nella storia e le tematiche di genere. Nel suo primo film Testimony: Narrative of a Negress Burdened by Good Intentions, l’artista narra, nello stile dei film muti degli inizi della storia del cinema, una vicenda di padroni e schiavi nel Sud, un’altra storia di violenze, stupri e linciaggi.

Dove e quando

Evento: American Art 1961-2001

Indirizzo: Palazzo Strozzi - Piazza degli Strozzi - Firenze
[Guarda su Google Maps]

Fino al: 29 Agosto, 2021