È un libro particolare quello di cui parliamo questa settimana, perché prima di prendere forma di libro è stato anche lui un articolo, una recensione, un approfondimento, un trafiletto. Una panchina a Manhattan, di Anna Ottani Cavina, pubblicato da Adelphi, è un viaggio attorno al mondo, a volte in città o luoghi improbabili, fatto inseguendo inaugurazioni e vernissage. Le mostre in effetti sono oggi l’appuntamento più atteso dagli appassionati d’arte (in Italia se ne inaugurano più o meno diecimila ogni anno. Sì, diecimila), ma forse ancora di più da chi all’arte si appassiona solo di tanto in tanto, sobillato dai grandi nomi in cartellone delle tante mostre che si rincorrono in calendario. Ma quand’e che una mostra può dirsi riuscita?
Contano i capolavori smobilitati da collezioni pubbliche e private, il numero di visitatori, gli incassi? O conta invece il motivo che sta alla base di un’idea espositiva, le domande alle quali il curatore tenta di rispondere? “Una mostra non dà risposte oggettive. Conquista, se può, con la forza delle sue domande” scrive l’autrice, professore emerito a Bologna e fondatrice della Fondazione Federico Zeri “le mostre hanno creato un sillabario di attori che prima erano solo comparse […] e hanno saputo inquadrare da angolazioni diverse eroi e mattatori di sempre, riscoperti oltre il canone“. Ben vengano allora esposizioni di questo tipo (e libri così, che ci aiutano a galleggiare in questo mare di vernici), e visitatori che non si accontentano di farsi strappare il biglietto – e magari postarlo su Instagram – ma si chiedono il perché e il percome di un certo quadro in un certo posto. E la panchina del titolo? Quale sia lo svela l’autrice nell’introduzione, io non vi rovino la sorpresa…