Nell’antichità c’è stata la Roma dei Cesari, e prima ancora Atene al tempo di Pericle. E poi Firenze nel Quattrocento, la culla del Rinascimento, e ancora Roma, per la splendente stagione del Barocco, che già però lasciava capire come il vento stesse lentamente cambiando. E nessuno può mettere in dubbio che Parigi sia stata il centro del mondo, dalla metà dell’Ottocento fino almeno al primo dopoguerra. E chi ancora nutrisse dubbi in proposito farebbe bene a leggere il nuovo libro di Jacopo Veneziani, La grande Parigi. 1900-1920, il periodo d’oro dell’arte moderna, appena pubblicato da Feltrinelli.
In fondo, chi non avrebbe voluto vivere a Parigi a cavallo tra Otto e Novecento? Per un artista – o un aspirante tale – pareva essere la terra promessa: lo sa bene Pablo Ruiz (che a Parigi prenderà il nome della madre: avete presente un certo Pablo Picasso?) che arriva alla Gare d’Orléans un giorno di ottobre del 1900, accompagnato solo dal suo amico Carlos Casagemas, aspirante pittore pure lui, pochi spicci e tante speranze. Speranze ben riposte, si sarebbe potuto dire: nonostante le difficoltà di mettere insieme il pranzo con la cena, è solo a Parigi che Pablo diventa Picasso.
Ma com’è Parigi all’inizio del secolo? “L’impressione doveva però essere molto simile a quella che proviamo noi oggi trovandoci nel cuore di Time Square a New York, frastornati da una miriade di immagini e luci, dai ritmi frenetici di una delle più grandi metropoli al mondo, dal costante rumore del traffico e dalle decine di lingue parlate intorno a noi. Era così Parigi nel primo anno del Novecento, una Babele moderna, assordante e variopinta, con strade nuove, piene di traffico, invase da cartelloni pubblicitari multicolori e volantini distribuiti da un esercito di uomini-sandwich, e sovrastate dal rimbombo degli zoccoli dei cavalli e dal frastuono dei cerchioni di ferro di omnibus, carri, carretti e carrozze che sfrecciavano lungo le vie lastricate, dove i richiami dei venditori ambulanti sembravano duettare con gli incomprensibili schiamazzi dei vetturini, gridati in chissà quale dialetto”. Una città in subbuglio, una città che sale (avrebbe detto qualcuno) in fermento, un’officina a cielo aperto, la terra delle possibilità, il posto – come disse Gertrude Stein – dove bisognava essere, per essere liberi. Liberi di esprimersi, soprattutto: non è un caso se proprio a Parigi si inanellano i movimenti artistici più rivoluzionari dell’epoca, dagli Impressionisti (che espongono per la prima volta insieme nel 1874 e che dovevano quindi sembrare a Picasso appena arrivato in città i grandi vecchi della pittura) ai Fauves, dai Puntinisti ai Simbolisti. Fino ai Cubisti, ovviamente. E nel libro ci sono tutti, e tutti amano e dipingono e pontificano e litigano e fanno la fame sullo sfondo di una città che diventa così protagonista di un’epoca. In fondo, non l’aveva detto anche Hemingway che Parigi è una festa mobile?

Dettagli

Jacopo Veneziani
La grande Parigi. 1900-1920. Il periodo d’oro dell’arte moderna
Feltrinelli
pp. 272