E se Van Gogh non si fosse ammazzato? Se la sua morte non fosse dovuta a un eccesso di follia dell’artista, ma fosse stata determinata da un’altra mano? Da questo dubbio, che qualche storico americano ha recentemente rispolverato, parte il libro di Marianne Jaeglé, Giallo Van Gogh (L’Asino d’oro Edizioni). A metà tra un romanzo e un’autobiografia, si inizia la lettura proprio dalla fine, da quel tragico giorno di fine luglio: “ecco cosa sapete, o credete di sapere da sempre, sull’argomento: una passeggiata nei campi, il 25 luglio 1890. Una pistola presa in prestito, non si sa bene a chi né perché; forse, dicono, per spaventare i corvi che sorvolano i campi di grano. E poi l’uomo. Lo si vede partire solo, nel primo pomeriggio, con il cavalletto sotto il braccio. Nell’altra mano la valigetta nella quale trasporta i colori e i pennelli. Sulla sua testa il cappello di paglia lo fa sembrare un contadino spossato e accaldato, sì, quello stesso uomo che avete visto nell’Autoritratto con il feltro grigio”. Cosa ci si poteva aspettare d’altronde da uno sciagurato del genere, da uno che fin da piccolo aveva visto il suo nome (quello del fratello morto prima che lui nascesse, in realtà) su di una tomba, da quello che si era tagliato un orecchio ed era finito internato, cosa ci si poteva aspettare, se non che si sparasse un colpo di pistola per farla finita con tutto? Lo scrive lo stesso Gauguin, alla notizia della sua morte: “per quanto sia triste la notizia della sua morte, non mi rattrista molto, perché l’avevo prevista e conoscevo bene le sofferenze di quel povero ragazzo in lotta con la sua follia. Non dubito che per Vincent la morte sia stata una fortuna, perché implica la fine delle sue sofferenze”. E invece, sembra che le cose non siano andate proprio così…