«I dettagli più scabrosi sono in questo racconto mitigati.
Tutte le ragazze che compaiono qui hanno messo la loro rispettabilità a disposizione di una franchezza reciproca che non tralasciava nulla e nulla circoscriveva.
Un simile modo di fare lusingava l’autonomia
all’insegna della quale conducevano la loro finta vita da signore e le stimolava a superarsi.»
Rudolf Borchardt, il grande scrittore famoso per aver tradotto in tedesco la Divina Commedia, nasce nel 1877 a Königsberg, nella Prussia orientale (oggi Kaliningrad), secondogenito di un’agiata famiglia protestante di origini ebraiche. Nel 1882, a causa delle leggi antisemite, la famiglia si trasferisce a Berlino. Rivela una straordinaria attitudine per le lingue, studiando con successo latino, greco, sanscrito, ebraico, inglese, arabo, italiano. Nel 1895 inizia l’Università a Berlino. Nel 1903 visita Pisa a cui dedicherà Pisa, solitudine di un impero (’32). Dal 1906, anno del primo matrimonio con la pittrice Karoline Ehrmann, sceglie di abitare in Toscana. Fa la conoscenza di Benedetto Croce. Partecipa alla prima guerra mondiale. Riprende il soggiorno italiano fra Pistoia e Lucca, accogliendo molti personaggi di cultura, tra cui Hugo von Hofmannsthal. Nel 1920 sposa in seconde nozze Marie Luise Voigt. Pubblica Infanzia e gioventù (’27-’28). Col testo Jamben prende le distanze dal nazionalsocialismo e dal fascismo. Dopo il ’32 non fa più ritorno in Germania dove gli è vietato pubblicare. Arrestato dalle SS in Lucchesia nel ’44, con probabile destinazione Auschwitz, muore al Brennero il 10 gennaio 1945.
Qualche giorno fa Via del Vento edizioni, nella Collana Ocra gialla, ha pubblicato un librettino di quarantotto pagine con due brevi racconti ancora inediti in Italia e tradotti da Claudia Ciardi. Appartenenti alla stagione del disincanto di Borchardt, sono “La nuova Didone” e “Incontro con la morte” quest’ultimo stampato privatamente a Brema nel 1934, un racconto dai toni surreali, di non facile interpretazione, lontanissimo dal primo che dà il titolo al volumetto.
Va però notato come, tale dualismo stilistico, sia proprio la cifra dell’autore e rappresentativo del doppio registro: un piano ironico e perfino caustico, l’altro erudito.
La scena si svolge in un non luogo, una citta somigliante a un mondo fatato – potrebbe essere Berma o Pisa – che muta intorno al protagonista, e i personaggi da lui incontrati, fino all’apparire della morte impersonata da Erhard. L’aspetto da dissepolto e il distacco con il quale si atteggia, inducono a comprendere che si tratti di una presenza ultraterrena con il compito di riportare in vita il narratore.
Lo stato allucinatorio che ne scaturisce conduce così il lettore alla consapevolezza di come i confini, fra reale e irreale, siano stati varcati.