Quando agli inizi del Seicento il monaco spagnolo Gabriel Téllez – entrato nella storia del teatro con lo pseudonimo Tirso de Molina – dava vita al personaggio di Don Giovanni nel testo teatrale L’ingannatore di Siviglia e il convitato di pietra, forse non immaginava neppure quanto lunga sarebbe stata la carriera sulle scene di Don Juan Tenorio, destinato a incarnare il personaggio del seduttore per antonomasia (il dongiovanni, appunto). Le epoche successive lo videro protagonista di numerose opere: dalla commedia di Molière al balletto su musiche di Gluck, fino alla più celebre di tutte, Il dissoluto punito ossia Don Giovanni di Mozart, andata in scena per la prima volta nel 1787.

Furono numerosi gli autori che si cimentarono con questo personaggio, da Carlo Goldoni a Lord Byron, da Aleksandr Puškin a José Saramago, che nel testo teatrale Don Giovanni o il dissoluto assolto offre una lettura non convenzionale di questa figura, divenuta ormai uno stereotipo, facendone un campione di coerenza: “il calunniato Don Giovanni ha l’onestà di non pentirsi quando il Commendatore appare minacciandolo con le fiamme dell’inferno. Don Giovanni sa che mentirebbe contro se stesso se si pentisse, e che nessun pentimento può cancellare le mancanze commesse“. Creatura letteraria, Don Giovanni ha finito con l’assumere nel tempo una identità quasi reale: lo scrittore José Zorrilla y Moral, che nel 1844 gli dedicò il dramma Don Juan Tenorio, fa muovere il celebre libertino sullo sfondo dell’Hostaria del Laurel – dove lo stesso Zorrilla soggiornava. La locanda si trova sulla Plaza de Los Venerables: qui la tradizione popolare colloca la casa natale di Don Juan, segnalata da un’apposita targa commemorativa.

La piazza, sede dell’antico ospizio per sacerdoti anziani (Los Venerables Sacerdotes), è nel cuore del Barrio de Santa Cruz, l’antico quartiere ebraico nel centro di Siviglia, dalle strade strette e tortuose, racchiuse tra palazzi nobiliari che lasciano intravedere scorci del patio a colonne, attorno al quale si svolgeva la vita della famiglia. Frequenti le piazzette ombreggiate da alberi di aranci dove si affaccia quasi sempre una chiesa – spesso in origine sinagoga – affiancata da uno degli innumerevoli complessi conventuali che sorgono in città; in molti di questi si tramanda ancora oggi l’uso della vendita diretta dei dolcetti prodotti dalle suore di clausura e distribuiti attraverso la “ruota”, unico contatto fra la vita claustrale e il mondo esterno.

Su Plaza de los Refinadores (gli artigiani del cuoio che qui avevano i loro laboratori), all’ingresso del Barrio de Santa Cruz, è stata collocata nel secolo scorso la statua in bronzo di Don Giovanni, che reca sul piedistallo alcuni versi tratti dall’opera di Zorrilla. A pochi passi, un luogo che l’immaginario collettivo ha legato all’opera buffa in due atti di Gioachino Rossini, Il Barbiere di Siviglia: l’elegante balcone in ferro battuto collocato sull’angolo di un antico palazzo è detto “il balcone di Rosina”, perché viene tradizionalmente identificato con quello dal quale la protagonista dell’opera lascia cadere una lettera per il suo spasimante Conte d’Almaviva.

Dalle mozartiane Nozze di Figaro è scaturita invece la convinzione popolare che il celebre barbiere vivesse in una casa della Calle Santo Tomás, tra la cattedrale e l’Alcázar, la reggia-fortezza costruita durante la dominazione araba. Ed è proprio negli ombrosi giardini dell’Alcázar che Gaetano Donizetti colloca alcune scene de La favorita, le cui vicende si svolgono nel XIV secolo, all’epoca della Reconquista, quando, dopo la cacciata degli Arabi da Siviglia, nell’Alcázar si erano insediati i sovrani di Castiglia.

Il “balcone di Rosina” si affaccia su uno dei pochi tratti ancora esistenti delle antiche mura che circondavano la città fino dal tempo di Giulio Cesare; ampliate in epoca augustea raggiunsero il massimo sviluppo – una lunghezza di sette chilometri lungo i quali si aprivano tredici porte – durante la dominazione araba della dinastia Almohade, per finire con l’essere in gran parte abbattute nella seconda metà dell’Ottocento, un destino comune alle antiche cinte murarie di numerose città europee. “Près des remparts de Séville / chez mon ami Lillas Pastia, / j’irai danser la séguedille…” canta la sigaraia Carmen, protagonista dell’opera composta da Georges Bizet sulla traccia dell’omonimo racconto di Prosper Mérimée, pubblicato nel 1845.

Nonostante siano state contate oltre cento opere ambientate a Siviglia, dalle più famose a quelle pressoché sconosciute, in nessuna come nella Carmen la città e i suoi luoghi costituiscono una presenza così significativa sullo sfondo della vicenda di passione e morte. Carmen entra in scena al momento in cui le operaie della Fábrica de Tabacos escono tutte insieme dalla monumentale porta del grandioso edificio, il secondo più grande di Spagna dopo l’Escorial, che oggi ospita il Rettorato dell’Università.

Costruita nei primi decenni del Settecento, la Fábrica arrivò a occupare fino a diecimila operaie, impiegate nella produzione di sigari e tabacco da fiuto. Il complesso sorge in prossimità di quello che era il porto fluviale di Siviglia sulle rive del Guadalquivir, dove attraccavano le navi provenienti dalle colonie d’Oltreoceano con il loro carico di tabacco pronto per la lavorazione. Ed è lungo il fiume, a poca distanza, che si trova la Plaza de Toros de la Real Maestranza de Caballería de Sevilla, la più antica di tutta la Spagna, edificata nella seconda metà del Settecento: davanti alla Plaza de Toros l’opera si conclude con l’uccisione di Carmen da parte di Don José.

Qui, in epoca recente è stata eretta una statua di Carmen così come l’ha immaginata lo scultore Sebastián Santos Rojas: l’aria fiera, lo scialle drappeggiato su una spalla e una mano a sollevare la gonna, pronta a danzare la seguidilla. La Carmen ricevette una fredda accoglienza in occasione della prima rappresentazione a Parigi e fu stroncata dalla critica che considerò l’opera troppo cruda e immorale; una profonda delusione per Bizet, che morirà tre mesi dopo a soli trentasei anni senza poter assistere al successo dell’opera quando andò in scena allo Staatsoper di Vienna, sei mesi dopo la prima. Da quel momento Carmen iniziò la sua irresistibile ascesa, accolta con entusiasmo dal pubblico e da compositori quali Wagner, Brahms e Ciajkovskij, che scriveva: “Sono convinto che fra dieci anni Carmen sarà l’opera più amata nel mondo“.

E Friedrich Nietzsche, in un lungo commento all’opera, che inizia con la dichiarazione: “Per la ventesima volta ho ieri assistito al capolavoro di Bizet e ancora l’ho udito con la stessa gentile reverenza“, notava: “Ah finalmente l’amore, l’amore ricondotto indietro verso la natura!… L’amore come destino, come un destino cinico, innocente, crudele, l’amore esatto nella sua forma natura. Io non conosco altro esempio dove la tragica ironia che costituisce il nocciolo dell’amore sia stata espressa con tale severità, con formula così terribile come nell’ultimo grido di José: Oui, c’est moi qui l’a tuée, Carmen, ma Carmen adorée…“