Il fiume è gonfio, le sue acque rapide attraversano le acque stagnanti della risaia senza mescolarvisi. Trascina con sé tutto quello che ha trovato fin da quando scorreva nella foresta cambogiana […] tutto che fluisce verso il Pacifico, senza avere il tempo di andare a fondo, tutto che viene trasportato dalla tempesta profonda e vertiginosa della corrente interna, tutto che viene mantenuto in sospensione e alla superficie dalla forza del fiume.”
(Marguerite Duras: L’amante, Feltrinelli, Milano 2018, pag. 30)

Si apre con il traghetto che attraversa le acque limacciose del Mekong tra Sadec e Vinh Long  L’amante, il “romanzo di formazione” fortemente autobiografico in cui Marguerite Duras narra la storia della relazione tra una quindicenne francese e un giovane miliardario cinese, ambientata in Indocina alla fine degli anni Venti del secolo scorso. Il vasto fiume, con il suo delta articolato e disperso in numerosi bracci, in un paesaggio oppresso dal calore e dall’umidità perenne, “in quella fascia calda della terra che non ha primavere, non ha risvegli”, è una presenza costante per tutta la narrazione: le sue acque, oscure e insondabili, piene di detriti eterogenei arrivati da chissà dove e diretti verso il nulla dell’oceano, assumono un valore simbolico, divenendo quasi un basso continuo che accompagna e segna il ritmo della storia.

Un mondo fluido, anfibio, in cui la vita si svolge sul fiume e lungo le sue sponde: case su palafitte sospese sopra le acque, mercati in cui si vendono e si comprano da una barca all’altra merci di ogni genere, fiori, frutta, prodotti artigianali, gli immancabili biglietti delle lotterie, zuppe preparate su fornelli fiammeggianti, posti in equilibrio precario a bordo dei sampan; l’animazione creata dal convergere di innumerevoli imbarcazioni verso i luoghi dei mercati inizia alle prime luci dell’alba e si conclude nella mattinata, quando i raggi del sole che si alza sull’orizzonte accendono implacabili riflessi sulle acque.

La scrittura de L’amante passa continuamente dalla narrazione in prima persona a quella in cui la “ragazzina bianca” diviene un personaggio che l’autrice sembra osservare con apparente distacco; così, viene riportato senza commenti il pensiero della madre che valuta con occhio mercantile: “la piccola, che sta facendosi grande e che forse un giorno saprà portare a casa dei soldi“. Un pensiero che introduce al passo successivo, per cui appare meno disdicevole che una quindicenne bianca si prostituisca con un miliardario cinese, piuttosto che immaginarla coinvolta in una storia d’amore con qualcuno che appartiene a un mondo con il quale non c’è – e non ci deve essere – alcuna possibilità di comunicazione e d’incontro.

La piccola borghesia della provincia francese tentava di esorcizzare le proprie frustrazioni trasferendole in colonia, dove si aveva modo di sentirsi “superiori”, illudendosi di far parte della “razza padrona”, anche solo in virtù del colore della propria pelle. Sullo sfondo del racconto, la popolazione locale appare come una folla di ombre indistinte, se ne parla solo per citare i “boys“, che esistono esclusivamente in quanto destinati al servizio dei bianchi. Un mondo a parte, isolato e chiuso, è quello dei grandi mercanti cinesi, disprezzati, odiati e invidiati dai francesi per i loro immensi patrimoni: quando la ragazzina porta a pranzo a spese dell’amante cinese tutta la famiglia, i suoi fratelli si fanno un punto d’onore di non rivolgere mai la parola al loro anfitrione, abbuffandosi in un silenzio sprezzante con tutti i prelibati manicaretti disposti sulla tavola.

A un legame che rompe tutte le convenzioni si oppone decisamente anche il padre del giovane cinese: “Il padre gli aveva risposto che avrebbe preferito vederlo morto“. E Marguerite riporta, con freddo distacco, le chiacchiere di paese che girano a Sadec, dove sua madre dirige la scuola primaria di lingua francese: “Dicono che è un cinese, il figlio del miliardario, quello che ha la villa sul Mekong, con la ceramica azzurra. Persino lui, invece di sentirsi onorato, non la vuole per suo figlio, non vuole questa bianca che appartiene a una famiglia di mascalzoni“.

La “villa sul Mekong, con la ceramica azzurra” è stata nel 2009 dichiarata patrimonio nazionale, divenendo una frequentata meta turistica, dopo essere stata per molti anni sede di uffici amministrativi; nel 1992, quando il regista francese Jean-Jacques Annaud girò in Vietnam il film tratto dal libro di Marguerite Duras, utilizzò un’antica casa situata a Bin Thuy, a pochi chilometri di distanza.

La villa – come le altre che le facoltose famiglie di mercanti cinesi si fecero costruire nel delta tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento – abbina le caratteristiche occidentali dell’archittettura esterna, ispirata a quella delle ville francesi fin de siècle, e interni in cui prevalgono lo stile e i materiali della cultura orientale tradizionale: pannelli in legno scolpito con intarsi di madreperla, alti soffitti dagli elaborati intrecci di travi, mentre al posto d’onore nella sala d’ingresso è collocato l’altare dedicato al culto degli antenati, con bastoncini d’incenso che ardono e offerte di fiori e frutta.

Una mescolanza di culture che si sovrappongono senza fondersi, quale appare anche nella descrizione dell’amante cinese al suo ingresso nelle pagine del racconto: “Dalla limousine un elegantissimo signore mi guarda. Non è un bianco ma è vestito all’europea, con il completo di tussor chiaro che indossano i banchieri di Saigon“. Dovranno passare molti anni, oltre mezzo secolo, prima che Marguerite dia voce a questa storia, che ha segnato una svolta nella sua vita: “Presto fu tardi nella mia vita. A diciott’anni era già troppo tardi“. A diciott’anni Marguerite si imbarcava per la Francia con la famiglia, lasciando definitivamente il Vietnam dove era nata.

Dettagli

Didascalie immagini

  1. La chiesa cattolica di Cai Be, nei pressi di Vinh Long, si affaccia su uno dei rami del Mekong
    (© Donata Brugioni)
  2. Nei mercati che si tengono quotidianamente sul delta, venditori e acquirenti trattano le merci direttamente dalle barche
    (© Donata Brugioni)
  3. Lungofiume a Can Tho
    (© Donata Brugioni)
  4. La villa di mercanti cinesi a Bin Thuy (inizi XX secolo) dove Jean-Jacques Annaud ha girato il film L’Amant
    (© Donata Brugioni)
  5. Ricordi delle riprese del film L’Amant di Jean-Jacques Annaud
    (© Donata Brugioni)
  6. La sala d’ingresso della villa a Bin Thuy con gli elaborati soffitti in stile tradizionale locale e il pavimento di piastrelle importate dalla Francia
    (© Donata Brugioni)
  7. Nella sala, il posto d’onore è riservato all’altare per il culto degli antenati
    (© Donata Brugioni)

In prima pagina:
La chiesa cattolica di Cai Be, nei pressi di Vinh Long, si affaccia su uno dei rami del Mekong
(© Donata Brugioni)