“Pietroburgo, la città più astratta e premeditata di tutto il globo terrestre”
(Fëdor Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo, 1864)
Quando nel 1703 lo zar Pietro I il Grande fece iniziare i lavori per la costruzione di una fortezza sull’isola delle Lepri, nel delta del fiume Neva che sfocia nel Golfo di Finlandia, scelse una zona paludosa e insalubre: una collocazione che trovava la sua ragion d’essere nella necessità di presidiare un’area di confine e di conflitto con il regno di Svezia, ma che appariva il luogo meno adatto alla fondazione di una città. Affidata all’architetto ticinese Domenico Trezzini, la costruzione della fortezza dei SS. Pietro e Paolo fu portata a termine in meno di un anno, realizzando un primo sistema difensivo in mattoni come caposaldo per la nascente flotta russa; il complesso fu in seguito ricostruito in pietra e ampliato fino a raggiungere nel 1740 le dimensioni e l’aspetto che conserva ancora oggi.
L’obiettivo dello zar era fare della Russia una potenza marittima come la tanto ammirata Olanda, dove aveva soggiornato in gioventù e che rappresentò sempre per lui il modello di modernità e scientifica razionalità al quale ispirarsi per portare la Russia fuori dall’oscurantismo medioevale nel quale era ancora immersa. La volontà dello zar di dare il proprio nome a una nuova capitale affacciata sul mare, “una finestra sull’Europa”, non si arrestò di fronte alle oggettive difficoltà di un ambiente paludoso, inospitale e malsano. Con il lavoro coatto di migliaia di uomini, con la requisizione del materiale da costruzione – pietre e marmi – fatto arrivare da tutta la Russia, cominciò a prendere forma una città fondata su un dedalo di isolotti circondati da canali e acquitrini, a somiglianza della tanto ammirata Amsterdam.
I primi edifici pubblici sorsero all’interno della fortezza, iniziando dalla cattedrale dei SS. Pietro e Paolo, anch’essa progettata da Domenico Trezzini, la cui guglia dorata, che risplende alta e sottile, sembra voler indicare ai naviganti la rotta verso la città; di fronte alla cattedrale fu costruita la Zecca, che dal 1724 ha continuato ininterrottamente la sua attività fino ai giorni nostri. Con un decreto imperiale del 1708 si obbligò la nobiltà a trasferirsi a Pietroburgo, e appena quattro anni dopo la città veniva proclamata capitale succedendo a Mosca; il progetto di Pietro di dare vita a una città che incarnasse lo spirito nuovo procedeva a grandi passi. Nel 1716, giungeva a Pietroburgo lo scultore fiorentino Bartolomeo Carlo Rastrelli, accompagnato dal figlio sedicenne Bartolomeo Francesco, che avrebbe dato alla città un aspetto grandioso e monumentale; a lui si debbono il Palazzo d’Inverno – che ospita attualmente il Museo dell’Ermitage – e numerose dimore patrizie, tra le quali spiccano le lussuose residenze imperiali di Peterhof e Carskoe Selo, nei dintorni della città. Nasceva un vero e proprio inconfondibile “stile Rastrelli”, nel quale si fondevano la formazione italiana e francese dell’architetto con le diverse culture delle maestranze qualificate e dei decoratori impiegati nei vari cantieri, che provenivano in gran parte da Olanda e Germania.
Prendeva forma una città splendida, con le lunghe prospettive di palazzi sontuosi affacciati sui canali Mojka e Fontanka, con la miriade di ponti che attraversano fiumi e canali collegando le numerose isole su cui sorge la città tra di loro e con la terraferma. Sulla riva sinistra della Neva, il complesso dell’Ammiragliato divenne il fulcro dello sviluppo urbano, a testimoniare simbolicamente come Pietroburgo fosse concepita guardando al mare, sua ragion d’essere. La forma attuale dell’Ammiragliato, opera in stile neoclassico dell’architetto Zacharov, risale ai primi anni del XIX secolo, dopo che l’originaria costruzione in legno, progettata personalmente dallo zar Pietro, era stata distrutta da un incendio.
Dall’Ammiragliato ha origine la Prospettiva Nevskij, la via più celebre e importante di Pietroburgo, aperta nel 1710 per consentire l’afflusso dei materiali da costruzione provenienti dall’interno del paese. Alla Prospettiva Nevskij, destinata a divenire ben presto il cuore della vita cittadina, un secolo dopo Nikolaj Gogol’ intitolerà uno dei suoi Racconti pietroburghesi, in cui uno dei personaggi dichiara: “Non c’è niente di meglio del Corso Nevskij, almeno a Pietroburgo; per la città è tutto. Di cos’è che brilla, questa strada-maliarda della nostra capitale?”. Subito dopo aver proclamato la nuova capitale, lo zar Pietro decise di far costruire un importante monastero (lavra) alla periferia della città e la via fu fatta proseguire fino al grandioso complesso: la lavra venne dedicata ad Aleksandr Nevskij, il principe che nel 1240 proprio sulle rive della Neva aveva sconfitto gli Svedesi, il difensore della patria russa canonizzato dalla Chiesa ortodossa.
La fondazione della lavra voleva essere anche un omaggio alla potentissima Chiesa ortodossa, per la quale il trasferimento della capitale a Pietroburgo rappresentava un oltraggio intollerabile. La Chiesa ortodossa, che aveva la sua Santa Sede a Mosca, considerata la “terza Roma”, vedeva nello zar Pietro – con la sua foga innovativa e la ferrea volontà di aprire l’impero all’Europa – l’incarnazione dell’Anticristo, una forza demoniaca che portava lo scompiglio in un paese legatissimo alle proprie tradizioni spirituali e religiose, spesso confinanti con la superstizione. Su questa si fece leva, esaltando gli influssi negativi che pesavano su una città fondata in un luogo dove aleggiavano putridi miasmi e costruita sulle ossa di decine di migliaia di uomini stroncati dalla fatica e dalla fame, come ricordavano i versi di un canto popolare dell’epoca: “un eroe la creò, murando con ossa la palude”. A sancire il mito di una Pietroburgo dalla duplice anima, bella e maledetta – specchio della personalità del suo creatore, che per spingere la Russia verso una modernità di stampo europeo usò l’autorità assoluta e il pugno di ferro di un despota orientale – sarà nel 1837 Aleksandr Sergeevic Puškin con il poema narrativo Il Cavaliere di bronzo.
Al centro del poema campeggia la statua equestre di Pietro il Grande, realizzata nel 1782 dallo scultore francese Falconet su commissione dell’imperatrice Caterina II, e collocata sulla Piazza del Senato. Puškin narra la vicenda di un giovane la cui fidanzata è morta in una delle frequenti inondazioni che colpivano la città. Una notte, passando davanti al monumento equestre, alza il pugno a maledire lo zar, che considera responsabile del suo lutto; per una sorta di maleficio, la statua si anima e insegue il giovane per le vie della città fino a ucciderlo. Eppure, nonostante il tragico epilogo di una storia a fosche tinte, Puškin celebra il fascino della città e delle sue luci, con le “notti bianche” estive che l’avvolgono in una magica atmosfera: “Amo il granito delle tue riviere, / dei tuoi cancelli bronzei la fattura / elegante, e il crepuscolo pensoso / delle tue notti illuni trasparenti, / quando nella mia stanza leggo e scrivo / senza lume e son chiare le dormenti / strade deserte e luccica d’un vivo / chiaror la guglia dell’Ammiragliato”. Negli stessi anni, l’identità ambigua che la città possiede in Puškin, assume toni cupi nei Racconti pietroburghesi di Nikolàj Gogol’, per il quale questo è il luogo in cui “si scatenano le forze diaboliche nemiche dell’uomo, e il cui sottostante terreno melmoso è in continuo movimento”. Fedor Dostoévskij, pur definendo Pietroburgo “una città di pazzoidi (…) È difficile trovare da qualche altra parte tanti elementi cupi, violenti, inspiegabili che influiscano sull’anima dell’uomo come qui” (Delitto e castigo, 1866), ambienta sullo sfondo delle vie e dei canali pietroburghesi la storia di un amore che dura quattro magiche “notti bianche”, le Belye Noči con i loro interminabili crepuscoli che cedono solo al nascere dell’aurora; un amore brevissimo e struggente, e forse proprio per questo indimenticabile e pieno di rimpianto: “Dio mio! Un minuto intero di beatitudine! È forse poco per colmare tutta la vita di un uomo?”.
Quando con il disgelo di primavera il traffico marittimo nel Golfo di Finlandia riprende, nel cuore delle “notti bianche” tutti i ponti sulla Neva vengono aperti uno dopo l’altro, con la sequenza di un silenzioso balletto; le navi escono dal porto fluviale sfilando lentamente verso il mare e passando davanti al Palazzo d’Inverno, all’Ammiragliato e a tutti gli edifici storici della città affacciati sulla Neva. Le imponenti masse d’acciaio sembrano smaterializzarsi nel chiarore perlaceo fino all’inconsistenza di un teatro d’ombre, nella magica alchimia della breve stagione in cui la luce prevale sulla sinistra e cupa oscurità dei lunghi inverni.