“Il bambino non muore mai: ogni essere umano, se non ha portato a termine un certo lavoro spirituale, è un bambino travestito da adulto. È meraviglioso essere bambini quando si è bambini ed è terribile che in tenera età qualcuno ci obblighi a comportarci da adulti. È terribile anche essere bambini quando si è adulti. Maturare significa mettere il bambino al suo posto, lasciarlo vivere dentro di noi non come un comandante ma come un seguace. Lui ci apporta lo stupore quotidiano, la purezza nelle intenzioni, il gioco rigeneratore, ma non deve mai convertirsi in tiranno.“
Alejandro Jodorowsky1
In tutte le sue molteplici espressioni il lavoro di Alejandro Jodorowsky esorta a fare della propria vita un’opera d’arte, evolvendo come individui attraverso la bellezza e la poesia, unici mezzi a disposizione per costruire una propria serenità interiore emancipata dal dolore. Non sfugge a questa regola neppure il suo ultimo film Poesia senza fine distribuito nelle sale da Mescalito Film, che ripercorre il periodo formativo della sua vita vissuto nel Cile natio prima della partenza definitiva verso Parigi all’età di ventiquattro anni.
Come la sua precedente opera cinematografica La danza della realtà – con titolo identico a quello dell’autobiografia pubblicata nel 2001 – anche Poesia senza fine nasce dal racconto dell’esperienza esistenziale del giovane Alejandro, partendo dai traumi di un’infanzia senza affetto segnata da un’acuta sensibilità, con un padre autoritario e una madre ancora bambina. L’inesauribile capacità dell’artista di reinventare sempre il proprio percorso artistico regala al film uno straordinario impatto visivo, in trovate come i teli stampati issati davanti alle facciate per ricreare un passato lontano e nei colori brillanti che dominano tutto.
In un’epoca in cui la poesia sembra qualcosa di arcaico e dimenticato, Jodorowsky si mette nuovamente – e con coraggio – a nudo con il suo stile barocco, che compensa l’abbondanza di metafore con la bellezza di immagini evocative che non temono l’eccesso, perché il vero poeta non deve giustificare la sua opera. Il figlio del cineasta Brontis ne interpreta il dispotico padre – chiamato sempre per nome ‘Jaime’ a sottolinearne l’assenza in quel ruolo paterno mai sostenuto – e la presenza del vero Alejandro a fianco del suo alter ego cinematografico fa assumere al film valore di personale atto psicomagico.
La Psicomagia è una disciplina creata dallo stesso Jodorowsky fondendo esperienze diverse della sua vita, che attraverso l’atto creativo tende a rimuovere quegli ostacoli che impediscono uno sviluppo armonico dell’esistenza; l’elemento psicologico si fonde con la valenza simbolica di atti che hanno forte presa sull’inconscio, capaci di redimere conflitti o rimarginare ferite interiori. Lasciando il Cile nel 1953 Alejandro non ha più incontrato i suoi genitori che, come la maggior parte delle persone che conosceva, sono stati spazzati via dalla dittatura di Pinochet, e il non aver versato una lacrima alla morte del padre è qualcosa che ha lasciato un segno profondo.
L’amore per il circo e la rappresentazione dell’esistenza come spettacolo fantasmagorico creano inevitabili paralleli con il Cinema di Federico Fellini, la natura stessa della materia autobiografica di Poesia senza fine evoca Amarcord, con suggestive scene di massa che sull’immediatezza dei cromatismi fondano la semplicità del messaggio. ‘La vita non ha senso, bisogna viverla!‘ decreta il cineasta, rappresentazione del suo io più profondo, incitando il figlio Adan nei panni del se stesso giovane che ancora si dibatte su questioni esistenziali; spingendolo infine a vestire il bianco candore di un alato essere di luce, affrancato dal rosso dell’inferno e dal nero della morte, nella sequenza più entusiasmante dell’intero film.
Il Cinema di Alejandro Jodorowsky chiede partecipazione a un universo esoterico fatto di simboli primordiali, appartenente a un mondo poetico con le radici ben piantate in un ventesimo secolo ormai tramontato, ma ancora vivo e pulsante. Lunga vita!