“E riverso sulla spalliera, con le braccia penzoloni, abbattuto e scosso da brividi intermittenti, mormorò la formula eterna del desiderio… assurda in quel caso, inammissibile, infame, ridicola e tuttavia santa anche questa volta e degna di rispetto: Ti amo!”
da La morte a Venezia (1912) di Thomas Mann
Sono passati cinquant’anni dall’arrivo sugli schermi di Morte a Venezia, il capolavoro di Luchino Visconti dal racconto di Thomas Mann, e il film non è stato scalfito minimamente dalle ingiurie del tempo; progetto lungamente accarezzato dal cineasta milanese, che faticò a prendere corpo per la difficoltà dei produttori di immaginare in forma visiva un testo che è prevalentemente flusso di pensieri interiore, ma anche e soprattutto per la scabrosità di un tema che presta il fianco all’ambiguità di sfumate valenze potenzialmente perverse.
Il maturo Gustav von Aschenbach, artista irreprensibile convinto che la sobrietà dei costumi sia parte essenziale indispensabile alla creazione della sua opera, in un periodo di riposo al Lido di Venezia è attratto dalla bellezza di un ragazzino polacco, Tadzio, alloggiato nel suo stesso albergo con madre, sorelle e istitutrice. Una passione che scatenando profondo turbamento si fa ossessione indecorosa, una ricerca della bellezza come atto spirituale che travolge la sfera sensuale, senza necessariamente generare pulsione sessuale. Il desiderio senile di un uomo di inseguire la perfezione estetica cela nel profondo la brama di gioventù come impossibile antidoto alla morte, adesso che la sabbia solo apparentemente immobile della sua clessidra ha improvvisamente accelerato la corsa, mostrando già in modo impietoso l’approssimarsi della fine.
Dove il testo letterario può vivere di sottintesi senza essere esplicito il linguaggio visivo del cinema è per sua natura rappresentazione fisica di corpi, si nutre di sguardi e movimenti con un loro preciso peso specifico, perciò Visconti e il co-sceneggiatore Nicola Badalucco hanno ampiamente tradito l’originale inserendo i ricordi del protagonista, con il personaggio di Alfred come interlocutore nelle discussioni sulla natura dell’atto creativo, e cambiando la sua professione da scrittore a musicista.
Il cambiamento della sfera creativa del personaggio non è dettaglio insignificante perché lo riavvicina all’ispirazione originale che Thomas Mann aveva tratto dalla figura di Gustav Mahler, così l’Aschenbach cinematografico si sovrappone in toto al grande musicista austriaco acquisendone tratti biografici e pensieri che l’autore della saga dei Buddenbrooks aveva espresso in altri scritti, tanto che Morte a Venezia raccolse anche il plauso di Golo Mann, attento curatore dell’eredità paterna.
Nella sequenza iniziale un battello si staglia al tramonto mentre il profilo di Venezia, come appare a chi vi giunge dal mare, riempie lo schermo sulle note sublimi della V Sinfonia di Mahler, con il terzo movimento – tema portante dell’intero film – che torna in chiusura per un finale d’oro sul brillare abbagliante del mare; racchiuso metaforicamente tra queste due visioni, quello di Morte a Venezia è un viaggio dell’anima dall’oscurità alla Luce di un eterno splendore in cui ogni dolore sarà placato.
Straordinario Dirk Bogarde, in uno dei ruoli iconici di un’intera carriera, è Aschenbach braccato dalla nera Sorella e vinto nel tentativo di fermare l’incedere del tempo, con la ridicola maschera bianca che aspira all’efficacia della calce contro il colera. La ricerca di Tadzio spinse Visconti in Svezia e Norvegia dove incontrò il giovanissimo Björn Andrésen che subì il peso di un’ingombrante fama planetaria, lo racconta lui stesso in un documentario che sarà nei cinema dal prossimo 6 settembre1.
Silvana Mangano, stretta nei costumi di Piero Tosi candidati anche all’Oscar, è l’eterea madre di Tadzio e in qualche modo incarna la figura materna di Visconti stesso, che da bambino passava l’estate proprio all’Hotel des Bains del Lido negli stessi anni rappresentati dal film; la ricostruzione d’ambiente così vivida si deve anche a questo e l’albergo, allora in stato d’abbandono, fu recuperato proprio per il film ed è ancora oggi sede anche di eventi collaterali alla Mostra del Cinema.
Nei film di Luchino Visconti ogni più piccolo dettaglio era sottoposto alla sua diretta approvazione, una dedizione totale al progetto – aperta però all’apporto dei collaboratori – che anche con Morte a Venezia ha dato vita a un’opera immortale. Una cura del dettaglio che pare in contrasto con l’evidente discontinuità del personaggio centrale, composto o scarmigliato senza una progressione narrativa a giustificarlo, stratagemma per dare forma tangibile a stati d’animo e turbamenti.
Rivedere Morte a Venezia di Luchino Visconti rinnova il rimpianto del progetto mancato, tratto dalla Recherche di Marcel Proust, che il grande cineasta non riuscì a realizzare e rende difficile sperare che certe vette altissime dell’arte cinematografica possano ancora essere raggiunte.