1918, in un’Europa uscita distrutta dal primo conflitto mondiale, delegazioni internazionali lavorano alla stesura del testo che crei le condizioni per ristabilire una pace duratura nel continente e nel mondo, ma sapranno produrre solo il famigerato Trattato di Versailles che nell’umiliazione della Germania sconfitta creerà terreno fertile all’ascesa del nazismo.
Della rappresentanza statunitense portavoce del presidente Wilson fa parte anche il padre del piccolo Prescott, che insieme alla madre si è trasferito in una casa nella campagna francese per seguire gli impegni diplomatici dell’austero genitore. Come in una cupa sinfonia – strutturata con un’overture, tre movimenti legati a tre atti del bambino sempre più eclatanti e un epilogo – seguiamo l’evolvere del despota in erba, tra un padre assente e una madre anaffettiva, una governante troppo anziana per avere polso e un’insegnante oggetto delle sue prime pulsioni erotiche.
Negli occhi smarriti di una bambina, persa tra la folla che inneggia a un nuovo leader in ascesa, la sequenza finale ci consegna tutto il terrore per gli oscuri presagi che si addensano sull’umanità intera, ancora ignara dell’apocalisse che sta arrivando.
L’attore americano Brady Corbet, incline a ruoli poco convenzionali per maestri come Michael Haneke e Lars von Trier, dopo aver diretto solo un videoclip con L’infanzia di un capo segna il debutto nel lungometraggio, realizzando un’opera complessa e stratificata.
Il film è il risultato di un progetto coltivato a lungo dal regista, autore della sceneggiatura originale insieme alla cineasta norvegese e compagna di vita Mona Fastvold, da quando la lettura del libro di Margaret Mc Millan sulla genesi del trattato di Versailles, intitolato Peacemakers: the Paris peace conference of 1919 and its attempt to end war, lo ha avvicinato a quello specifico momento storico.
Altre suggestioni sono confluite in questo film, sorprendente considerando che è un’opera prima, di alto profilo etico ed estetico che chiede anche al pubblico un salto di qualità; l’idea di una personalità ancora acerba che prende coscienza dell’ascendente che ha sugli altri, sviluppando capacità manipolatorie, deriva dall’omonimo racconto di Jean-Paul Sartre del 1939, ma Brady Corbet cita tra le sue fonti d’ispirazione anche il romanzo Il mago di John Fowles del 1965 e sui titoli di coda ringrazia Hannah Arendt cui dobbiamo La banalità del male e lo scrittore austriaco Robert Musil; celebre la sua conferenza Sulla stupidità tenuta a Vienna nel marzo 1937 quando già incombeva sull’Austria l’annessione al Terzo Reich.
L’infanzia di un capo tratta la Storia come corpo vivo e pulsante, mostrando in modo eloquente la relazione tra scelte di ieri e conseguenze ancora attive che producono effetti nella contemporaneità; i rapporti tra gli Stati furono definiti dalla Conferenza di Pace di Parigi del 1919, la diplomazia relegata a ruolo marginale per dare preminenza a discussioni puramente economiche. Il pretesto della sconfitta per depredare la Germania di risorse come il carbone delle sue miniere, la decisione di non dare pari dignità a tutte le confessioni nella ricostruzione dei luoghi di culto; il film ci sbatte davanti a uno specchio per denunciare l’origine di strutture politiche ancora attuali, che ostacolano la nascita di una vera Unione Europea fondata sull’eguaglianza dei popoli.
Dopo anni in cui ha incassato solo rifiuti, Brady Corbet è riuscito a trovare i finanziamenti necessari alla realizzazione del film grazie al coinvolgimento nel progetto dell’amico Robert Pattinson, trasformato in star dal successo planetario della saga di Twilight, cui ha affidato un doppio ruolo che crea purtroppo qualche difficoltà di comprensione all’ermetico finale. Completano il cast attori straordinari come Bérénice Bejo, Yolande Moreau, Stacy Martin, Liam Cunningham e l’esordiente Tom Sweet, appena dieci anni al momento delle riprese, dotato di una tale intensità nel dare al piccolo Prescott un misto di diabolica innocenza, da lasciare davvero stupefatti.
Notevole e determinante per l’atmosfera satura di presagi funesti del film è anche la musica dissonante del cantautore Scott Walker, alla seconda colonna sonora dopo quella per Pola X di Leos Carax, cui si deve l’efficacia di una sequenza onirica eccezionale nel creare disagio filmando semplicemente spazi vuoti, che ritornano poi non a caso come teatro dell’affermazione di un potere dispotico.
A due anni dall’esordio alla 72ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia nella sezione Orizzonti, dove ha conquistato i premi alla regia e alla migliore opera prima, finalmente L’infanzia di un capo arriva nelle sale italiane grazie a Fil Rouge Media.