“…accanto a un sole così, un sole così grande, era impossibile non bruciarsi.” In queste parole del cineasta russo Kirill Serebrennikov sta il cuore profondo del suo La moglie di Tchaikovsky, primo titolo della sua filmografia ambientato nel XIX secolo; un’opera che – primato assoluto in tutta la storia del cinema, se si esclude il ruolo marginale di Glenda Jackson in L’altra faccia dell’amore di Ken Russell – indaga la figura tragica di Antonina Ivanovna Miljukova ponendola al centro della narrazione, la donna che fu unita in matrimonio al grande musicista Pyotr Il’ič Tchaikovsky.
La vita dimenticata di una figura troppo spesso liquidata frettolosamente, nelle note biografiche, come un’idiota incapace di apprezzare i capolavori del consorte, folle e ninfomane, quindi non all’altezza di sedere accanto a un genio di tale portata, ma che molto più probabilmente ebbe soprattutto il torto di trasformare l’uomo in un oggetto di idolatria.
Attraverso accurate ricerche che da molti anni Serebrennikov porta avanti su Tchaikovsky e con il supporto fondamentale dei volumi scritti da Alexander Poznansky, professore all’Università di Yale tra i massimi esperti in materia, il regista ha scritto la sceneggiatura originale scegliendo di raccontare il grande musicista attraverso il suo riflesso, scaturito dalla vera e propria venerazione che Antonina nutriva per lui. Quasi tutte le battute della protagonista nel film sono vere, tratte dalle sue lettere, e contribuiscono a ricostruire solitudine e desolazione di una donna che, nel nutrire l’illusione di un amore, ha sacrificato a quel suo sentimento mal ricambiato qualsiasi altro aspetto dell’esistenza.
Circoscritto tra il primo fuggevole incontro nel 1872 e la morte del musicista nel 1893, il racconto si apre con un momento surreale in cui Pyotr scavalca ogni barriera metafisica per ribadire a Antonina tutta la repulsione che ha per lei; tocco da maestro utile a enunciare immediatamente la natura di un rapporto violentemente interrotto da lui, contrapposto alla cecità di lei che scientemente, non solo ignora le dicerie, ma rifiuta anche le evidenze sotto i suoi occhi.
La moglie di Tchaikovsky presenta analogie con Parola di Dio, titolo che a Cannes 2016 ha dato a Serebrennikov attenzione internazionale, con l’ossessione di Antonina che riverbera il fanatismo religioso del giovane protagonista del film precedente, ma anche nella forma di uno stile fatto di raffinati lunghi piani sequenza, spesso scanditi da passaggi di tempo inclusi in uno stesso spazio, con suggestive incursioni nel trascendentale, tra il mistico e l’onirico, davvero meravigliose.
Per riprodurre il punto di vista della protagonista, l’autore omette ogni riferimento esplicito al rimosso di Antonina nei confronti del marito, amplificando l’essenza del non detto e la portata dell’ipocrisia sociale in cui visse Tchaikovsky che, forse, fu anche fatale causa della sua fine. La giovane Alyona Mikhailova è straordinaria nel dare spessore al complesso ritratto di una donna smarrita, persa e soffocata dal peso dell’assenza di quell’uomo a cui ha votato ogni suo desiderio.
Odin Lund Biron è un perfetto Pyotr Tchaikovsky; praticamente sconosciuto, l’attore statunitense è andato in Russia a studiare quando aveva vent’anni finendo col viverci tre lustri, era già stato diretto in teatro da Serebrennikov. Molteplici i rimandi pittorici che hanno ispirato la splendida luce del film, da Jean-Honoré Fragonard a tutta la pittura europea con particolari rimandi a Vermeer, intrecciati a echi letterari forse inconsapevoli, ma evidenti, come l’Anna Karenina di Lev Tolstoj.
Con due nuovi progetti già in lavorazione – sul poeta Ėduard Limonov e sulla fuga in Uruguay del nazista Josef Mengele – il prolifico Kirill Serebrennikov è certamente un autore da tenere d’occhio e oltre a La moglie di Tchaikovsky, nelle sale italiane il prossimo 5 ottobre distribuito da I Wonder Pictures, si consiglia la visione anche delle sue opere precedenti.