Uomo schivo e silenzioso Duval è un impiegato scrupoloso, ostinato nell’ultimare a qualsiasi costo ogni compito assegnatogli da chi nella scala gerarchica – e quindi nella sua visione del mondo – gli è superiore di grado, ma da due anni ha perso il lavoro per un esaurimento indotto da problemi di alcolismo. Ha smesso di bere e al gruppo di alcolisti anonimi incontra Sara, solitaria e isolata come lui con la quale scopre una certa affinità, quando improvvisamente una telefonata a tarda sera gli apre prospettive per un nuovo impiego; tutto finalmente sembra andare per il verso giusto.
Semplice e molto ben retribuito, il ruolo professionale offerto richiede precisione quasi ossessiva e rigore nell’assecondare regole incomprensibili nella loro apparente assurdità, come quella di non portare mai con sé il cellulare sul posto di lavoro. Ogni giorno, rispettando rigidamente orari fissi, Duval deve sedersi a una scrivania in un anonimo appartamento vuoto e un po’ fatiscente di Parigi, per trascrivere in modo completo e dettagliato con una vecchia macchina da scrivere conversazioni telefoniche registrate su nastri magnetici.
Il tranquillo impiegato entra in contatto con un mondo di ombre parallelo, coinvolto in situazioni pericolose se non addirittura letali, trasformato in piccolo ingranaggio di meccanismi invisibili molto più grandi di lui costantemente pronti a stritolarlo.
Già documentarista per Canal+ con La meccanica delle ombre il regista Thomas Kruithof fa il suo esordio nel lungometraggio, con un thriller che se può evocare nella situazione descritta Le vite degli altri di Florian von Donnersmarck è senza dubbio più prossimo nei contenuti a classici della ‘paranoia’ come La conversazione di Francis Ford Coppola, I tre giorni del Condor di Sidney Pollack o il bellissimo Blow Out di Brian De Palma. Teso ed essenziale il film tiene col fiato sospeso grazie a semplici espedienti come il porre in basso la macchina da presa, relegandoci a un’inconscia posizione d’inferiorità anche fisica rispetto al mistero, o spingendo l’immedesimazione quando il protagonista inquadrato da dietro con le cuffie ci fa temere per la sua incolumità, reso vulnerabile dall’incapacità di udire nel suo isolamento i rumori che ha intorno.
Facendo propria la situazione più ricorrente nell’opera del Maestro Alfred Hitchcock, il cineasta belga precipita un inconsapevole uomo comune in un incubo a occhi aperti, disseminando il percorso di falsi allarmi per amplificare la tensione, come il primo piano di un bicchiere che inevitabilmente rimanda a quello indimenticabile di Cary Grant nel classico Il sospetto.
Francois Cluzet è straordinario nel costruire il ritratto inedito di un uomo chiuso e taciturno, che esprime in prevalenza con gli sguardi lo smarrimento di un individuo abituato ad assecondare l’autorità, che imparerà sulla propria pelle il valore della disubbidienza per respingere ogni attentato alla sua sopravvivenza.
Ormai tra le nostre attrici più internazionali Alba Rohrwacher affronta il ruolo di Sara recitando in francese, dopo averci abituato all’alto livello delle sue prove in qualsiasi lingua – dal dialetto emiliano de L’uomo che verrà di Giorgio Diritti al tedesco dell’inedito (in Italia) Glück di Doris Dörrie, fino all’inglese per Hungry Hearts di Saverio Costanzo – anche quando come in questo caso il suo ruolo è minimo e strumentale a un crescendo del pathos narrativo.
Completano il cast artistico solidi interpreti come Denis Podalyadès nei panni dell’enigmatico Clément, Simon Abkarian in quelli dell’ambiguo Gerfaut e Sami Bouajila a incarnare il senso di affidabilità che ispira Labarthe.
Pur raccontando scenari inquietanti – tutt’altro che inverosimili – in materia di controllo e manipolazione delle masse, La meccanica delle ombre sceglie di non soccombere alla plumbea consapevolezza di sotterranei movimenti occulti, lasciando illusione e speranza che sia plausibile tornare a un inconsapevole scorrere tranquillo di vita comune lontano da complotti.