Una di quelle storie private che finiscono sui giornali, al centro dell’attenzione pubblica loro malgrado, risucchiate dalla retorica – in questo caso di un richiamo al dovere, verso chi poi non è dato sapere – e strumentalizzate a una propria lettura banalizzante, distorta e carica di intenzioni discutibili che non hanno mai avuto i protagonisti all’origine, è alla base del soggetto di Fuga in Normandia dell’inglese Oliver Parker.
Primavera 2014, quasi novantenne Bernard Jordan, reduce della Seconda Guerra Mondiale in cui ha prestato servizio nella Marina di sua maestà britannica, vive in una residenza protetta con sua moglie René. L’avvicinarsi delle celebrazioni per il 70° anniversario dello Sbarco in Normandia del 6 giugno 1944, senza che la direzione della clinica sia riuscita a trovargli posto in uno dei viaggi organizzati dalle associazioni di ex combattenti, spinge l’anziano ad allontanarsi senza darne conto a nessuno per mettersi autonomamente in viaggio e raggiungere la costa francese, teatro di quell’evento traumatico – vissuto a diciannove anni – che ha segnato tutta la sua vita. Quando il personale della casa di riposo rileva la sua assenza, una fuga portata a termine con il complice silenzio di sua moglie, le forze dell’ordine sono chiamate a intraprendere le ricerche e la notizia arriva così ai giornali, che costruiscono ‘una storia esemplare’ creando – all’insaputa più completa del suo protagonista – il mito del patriota devoto alla causa, lontanissimo dal profilo umano di Bernie e dalle vere intenzioni che lo hanno spinto a partire. Sarà soprattutto un viaggio nella memoria, l’occasione per fare i conti, finalmente, con quei ricordi dolorosi mai rivelati a nessuno, per potersi infine pacificare con le indelebili cicatrici inflitte alla sua anima dalla brutalità del mondo.
Il coinvolgimento personale del regista, figlio di un Capitano della RAF che a lungo ha taciuto le sue esperienze belliche, e dello sceneggiatore William Ivory – suo padre ha condiviso quelle memorie soltanto poco prima di morire – hanno permesso di realizzare un film che schiva ogni rischio di stucchevole retorica, anche grazie all’apporto di due veterani della recitazione immuni a sentimentalismi. Il risultato è un ritratto impietoso sull’insorgere della vecchiaia e sull’insensatezza della guerra.
Un grande Michael Caine, che da due anni si era ritirato dalla recitazione, ha accettato il ruolo di Bernie convinto dalla scena dell’incontro tra lui e i reduci tedeschi sopravvissuti, un momento toccante, simbolo di pacificazione tra uomini di fronti opposti; al suo fianco nei panni di René una splendida Glenda Jackson – scomparsa l’anno scorso – nell’ultimo ruolo della sua vita, una coppia collaudata di nuovo insieme sullo schermo cinquant’anni dopo Una romantica donna inglese di Joseph Losey.
Il film mettendo a confronto sopravvissuti di generazioni diverse, reduci di guerre in epoche e posti diversi, mette in evidenza, non solo l’inutile spreco di giovani vite – mandate al macello per interessi politici contingenti del momento – che accomuna ogni conflitto indistintamente nella Storia, ma certifica l’inesistenza assoluta di guerre giuste; è vizio perverso della propaganda rivestire i conflitti armati di nobili principi lasciando, fin dalla notte dei tempi, i reali motivi venali ben nascosti alla pubblica opinione, manipolata nell’alimentare uno strumentale patriottismo.
Ribadire il valore della memoria collettiva, ma anche di quella privata come prezioso bagaglio da custodire in questo passaggio terreno, è l’altro intento che Fuga in Normandia di Oliver Parker – nelle sale italiane il prossimo 20 giugno distribuito da Lucky Red – comunica in maniera estremamente efficace. Di produzione inglese, insieme a Francia e Svezia, il film rientra a pieno titolo nell’iniziativa Cinema Revolution.