Spesso cantore di un’umanità difforme, già a partire dal suo esordio nel lungometraggio con Le dernier combat, il francese Luc Besson con Dogman disegna un nuovo, bellissimo, personaggio iconico che va ad arricchire la sua già nutrita galleria, realizzando un’opera a tratti commovente, forse la migliore di tutta la sua carriera, che all’80ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica La Biennale di Venezia, dove ha esordito in concorso, avrebbe certo meritato più attenzione.
L’incipit cattura immediatamente l’attenzione: esterno notte in una metropoli degli Stati Uniti d’America, una bionda sporca di sangue, alla guida di un furgone è fermata dalla polizia e quando viene aperto il retro del mezzo per la perquisizione, decine di cani saltano fuori e fuggono via nell’oscurità. Poi la psicologa Evelyn è convocata al commissariato per incontrare il giovane Douglas Munrow e tracciarne un profilo psicologico, i loro colloqui saranno colonna portante intorno ai quali di dispiega il racconto degli eventi che hanno portato il ragazzo all’arresto, ma anche di un’infanzia difficile, segnata dall’abbandono della madre e dalle brutalità di un padre violento. Un incontro di anime non così distanti come potrebbe sembrare, accomunate dal dolore della sopravvivenza ai rovesci della vita.
Dopo aver creato figure entrate nel patrimonio emotivo collettivo, come Nikita e Léon, inadeguate al mondo in cui vivono, con il Douglas protagonista di questo nuovo film Luc Besson ha dato forma sullo schermo a un uomo nel quale, al di là di ogni sua peculiare singolarità, è facile emotivamente riconoscersi e connettersi alle sue cicatrici interiori.
In conferenza stampa a Venezia 80 il cineasta parigino ha detto che dall’età di sedici anni ogni mattina si alza alle cinque e si mette a scrivere, in completa libertà, è il suo modo di sfuggire a questo mondo; la scintilla che ha generato l’idea di Dogman è nata dalla lettura di un brutto fatto di cronaca, la notizia di un bambino di cinque anni rinchiuso in gabbia dalla sua famiglia. L’idea del trauma che una persona deve affrontare in un caso così, ha dato origine alla storia.
Determinante l’apporto di Caleb Landry Jones, che nel ruolo di Douglas offre un’interpretazione magistrale e, nella scena in cui per la prima volta si sente una canzone di Édith Piaf, è talmente forte la sua carica empatica che è impossibile trattenere le lacrime; l’attore texano ha raccontato che sul set quando hanno girato, diversi membri della troupe avevano gli occhi lucidi. Il potere salvifico di arte e bellezza, uno dei temi del film, trova in questa sequenza un esempio sublime.
Nessun’algoritmo potrà eguagliare mai la vita e Besson, con un lavoro complesso di due mesi per studiare simpatie e antipatie, ha formato una squadra di cani veri, preferibile a qualsiasi effetto digitale. Nelle motivazioni che muovono le azioni di Douglas, nel suo diventare l’uomo dei cani e scambiare affetto con questi esseri dai sentimenti puri, pulsa forte un cuore politico indifferente al denaro, alimentato dall’arte di Shakespeare e sensibile all’iniquità delle diseguaglianze sociali.
Dogman di Luc Besson è una bellissima creatura di rara poesia, sarà nelle sale italiane dal prossimo 12 ottobre distribuito da Lucky Red; auguriamo al film ogni fortuna e speriamo che faccia per il suo splendido protagonista ciò che Léon ha fatto per la carriera di Jean Reno.