Un’occasione da non perdere quella offerta daI Teatro Nazionale di Mannheim (Nationaltheater Mannheim) che ha portato in scena nella sede del Theater im Pfalzbau di Ludwigshafen “Die Huguenotten” (Gli Ugonotti), con la regia firmata da Jossi Wieler e Sergio Morabito. Una co-produzione con il Grand Théâtre de Genève.

Rappresentata per la prima volta nel 1836, l’opera ebbe un successo enorme, con il lirismo toccante delle singole parti e la potenza travolgente delle grandi scene corali. All’epoca Henrich Heine ebbe parole entusiastiche e paragonò Gli Ugononotti a “una cattedrale gotica, le cui colonne si innalzano verso il cielo e la cupola colossale sembrano essere state innalzate dalla mano audace di un gigante; mentre gli innumerevoli e raffinati festoni, rosoni e arabeschi che la ricoprono, come un velo di pizzo nella pietra, testimoniano l’instancabile pazienza dei nani.” Fu la prima opera a essere rappresentata più di mille volte all’Opéra di Parigi (la millesima rappresentazione fu nel 1906). Poi, come per le altre opere di Meyerbeer, Gli Ugononotti perse il favore del pubblico e scomparve dai cartelloni, salvo occasionali riprese. Oltre al mutare del gusto del Novecento, la scarsità di produzioni nel ventesimo secolo è dovuta alle dimensioni e alla complessità dell’opera e non ultimo alla damnatio scagliata da Wagner, nel suo furore antisemita, contro l’ebreo Meyerbeer e le sue opere. Poco importa che lo stesso Meyerbeer avesse aiutato Wagner, anche finanziariamente, all’inizio della sua carriera. Tuttora Gli Ugonotti passano di rado in scena e anche in questo 2023, oltre alla coproduzione Mannheim/Givevra, l’unica altra produzione sarà a Marsiglia a giugno (si veda operabase).

Il massacro degli Ugonotti nella Notte di San Bartolomeo del 1572 fu uno degli episodi più sanguinosi delle guerre di religione in Europa. Nel 1832, Meyerbeer scelse questa ambientazione storica come sfondo per la sua nuova opera, che sviluppò insieme al librettista Eugène Scribe. Le vicende private e quelle storiche sono strettamente intrecciate: la storia stile Romeo e Giulietta tra il capo ugonotto Raoul e la giovane Valentine, la figlia del leader cattolico, si svolge sullo sfondo della lotta per il potere alla corte di Francia e culmina nel bagno di sangue della Notte di San Bartolomeo.
Wieler e Morabito, assieme alla scenografa Anna Viebrock, decontestualizzano il libretto e spostano gli eventi in un teatro di posa dell’età dell’oro del cinema. Hollywood? Cinecittà? Lo spettacolo si muove allora su piani e registri paralleli. Le scene sono una vera gioia per gli occhi. Meticolosa la ricostruzione del set cinematografico. Splendide le telecamere d’epoca e i costumi da golden age del cinema. La regina di Francia è una produttrice cinematografica, un vero boss in gonnella, che non disdegna la compagnia dei giovani attori e che dirige il tutto con mano ferrea. Ci sono anche momenti leggeri come la regina che balla il can-can o i capi delle due fazioni religiose che si sfidano in un improbabile incontro di pugilato (da migliorare i fondamentali della Nobile Arte…), invece che al duello rituale. A tratti si respira aria di kolossal e, in effetti, Gli Ugonotti è un kolossal ante litteram. Rimane comunque ben chiaro l’eccesso emotivo del capolavoro di Meyerbeer. I pilastri gotici che dominano la vista e le grandi panche di legno rimandano la potenza totalizzante della religione. L’odio e la devastazione non sono rimossi; gli spettri insanguinati degli Ugonotti passano spesso in scena e ci ricordano il fiume di sangue che scorse nella Notte di San Bartolomeo. La benedizione dei pugnali con cui saranno poi sterminati i protestanti rimanda la tragica violenza del fanatismo di massa. Dio lo vuole!

Ne esce uno spettacolo poliedrico, a volte difficile da inquadrare, ma affascinante e molto curato nei dettagli, che naviga le quasi cinque ore di rappresentazione (per altro infrasettimanale!) tenendo sempre viva l’attenzione del pubblico e facendolo interrogare su quello che avviene in scena e su cosa possa significare per noi. Il colpo d’occhio è sempre imponente e la recitazione ben curata, così come i movimenti delle masse in palcoscenico.
Per questa maratona lirica l’Opera di Mannheim ha schierato una solida compagnia di canto.
Raoul è un giovincello ingenuo che sembra capitato per caso nel mondo dorato del cinema. Il tenore Anton Rositskiy ne restituisce gli accenti appassionati. Vestito come se avesse scassinato un cassone della Croce Rossa, si fa subito applaudire per la romanza del primo atto (“Plus blanche que la blanche hermine”), accompagnato dalla viola d’amore. Voce elegante e flessibile da tenore di grazia; rimarchevole per come riesce a mantenere brillantezza vocale per tutta la lunghissima parte. Astrid Keller, che interpreta Valentine, entra in scena con un look da diva à la Catherine Deneuve, occhiali scuri, chioma bionda sotto un foulard. Rimanda poi la grazia e le insicurezze giovanili della protagonista con soprano agile e luminoso. Applaudita la sua romanza del quarto atto “Parmi les pleurs mon rêve se ranime”. Il gran duetto fra i due spasimanti “Le danger presse et le temps vole” è uno dei momenti alti della serata.

Solido il Marcel del basso Sung Ha, che dà voce possente e scura ai fervori del vecchio soldato protestante (anche se sembra scappato dal set del Corsaro Nero). Il soprano Estelle Kruger impersona con sicurezza la Regina Marguerite, in versione produttrice cinematografica, fin dalla cavatina del secondo atto ”Ô beau pays de la Touraine!”, dove si fa ammirare per le colarature, accompagnata dal flauto. Il baritono Nikola Diskić canta Nevers e convince per voce e gesto. Stefan Sevenich dà autorevolezza al Conte di Saint-Bris, il capo della fazione cattolica e regista del massacro dei protestanti.
Una nota davvero speciale per il mezzosoprano coreano Hyemi Jung, che riempie il ruolo en travesti del paggio Urbain (qui l’assistente della produttrice cinematografica) di verve recitativa (spassoso quando si trasforma in Charlot) e di fuochi di artificio vocali. Una vera gioia per gli occhi e per le orecchie.
Il coro è un motore primario del dramma. Anzi, i cori che creano grandi quadri di assieme e incorniciano le vicende e i colori dell’opera. Cori a volte nuziali, a volte guerreschi. A volte contrapposti tra calvinisti e cattolici, che rimandano con forza il fanatismo delle masse. Sempre precisi e potenti gli interventi del Coro e dell’extra-Coro dell’Opera.

L’Orchestra del Teatro Nazionale di Mannheim, ai comandi di Jānis Liepiņš, ricrea con smalto lo spartito enorme e variegato de Gli Ugonotti, che Hector Berlioz definì una “vera enciclopedia musicale“. Arie liriche si alternano a scene monumentali, la tragedia alla commedia. Si odono accenti verdiani, specie nell’energia di certi duetti/terzetti e in certi passaggi corali, e anticipazioni wagneriane. L’inno protestante “Ein’ feste Burg ist unser Gott” composto da Lutero passa come un filo conduttore attraverso i cinque atti, quasi un leitmotiv ante-litteram.
Sul sipario finale applausi vivaci per tutti i protagonisti di questo blockbuster operistico che meriterebbe senz’altro miglior fortuna.