“Può darsi che quanto scrivo non sia che da me sentito. Ma sta di fatto che per me quanto provai alla vista dell’Oriente, non provai mai”.
(Alberto Pasini)
I dolci profili delle colline parmensi fanno da sfondo alla “Villa dei Capolavori”, sede della Fondazione Magnani-Rocca a Mamiano di Traversetolo, che ospita fino al 1° luglio prossimo la mostra Pasini e l’Oriente. Luci e colori di terre lontane: un percorso che in oltre cento immagini tra dipinti a olio, disegni, incisioni e fotografie fa rivivere il mondo in cui l’artista si immerse oltre centocinquanta anni fa alla ricerca di atmosfere, costumi e aspetti della vita quotidiana di paesi dal fascino irresistibile dell’ignoto. Una conoscenza “sul campo”, ben lontana da quella dei cosiddetti “orientalistes en chambre” ottocenteschi che dell’Oriente conoscevano solo le immagini e gli oggetti diffusi in Europa, senza essersi mai imbarcati per una traversata del Mediterraneo. Jean-Auguste-Dominique Ingres, illustre capostipite di questo genere di pittura, destinato a incontrare una straordinaria fortuna nel corso del XIX secolo, aprì la via nel 1814 con l’algido fascino della sua splendida Grande Odalisca e concluse la propria parabola creativa con l’eleganza maliziosa del Bagno turco, dipinto nel 1862.
È piuttosto a Delacroix che deve aver guardato il giovane Pasini: il maestro francese nel 1832 partì per il Nord Africa al seguito di una missione diplomatica per visitare quello che definiva “l’Oriente mediterraneo”, e viaggiò attraverso Marocco e Algeria immergendosi nella vita locale fino a entrare nell’intimità delle quasi inaccessibili case private, chiuse fra alte mura; dai taccuini di appunti nacque al ritorno in patria il dipinto Donne di Algeri nei loro appartamenti, che ebbe un successo strepitoso presso il pubblico parigino al Salon del 1834, e fu acquistato personalmente dal re Luigi Filippo. Un capolavoro che non solo preludeva ai giochi luministici dell’impressionismo, ma che fu determinante per l’affermazione dell’Orientalismo, divenuto ben presto una vera mania in Francia e nel resto d’Europa. Il gusto per l’esotico sarebbe durato quasi un secolo, per approdare infine alla serie di Odalische dipinte fra gli anni Venti e Trenta del Novecento da Henri Matisse, che motivava la scelta di questo soggetto sostenendo che: “La rivelazione mi è venuta dall’Oriente”.
Alberto Pasini era nato nel 1826 in quel di Busseto, borgo della bassa parmense che tredici anni prima aveva dato i natali a Giuseppe Verdi. Negli anni Quaranta dell’Ottocento, neppure il grande compositore rimase immune al fascino dell’Oriente: due opere composte in quel periodo, I lombardi alla prima Crociata, che andò in scena alla Scala nel 1842 e Nabucodonosor, la cui prima alla Scala ebbe luogo l’anno successivo, erano entrambe ambientate in quelle terre d’oltremare che attiravano con il richiamo dell’esotico e il brivido del proibito e peccaminoso una borghesia alla quale cominciava a “stare stretto” lo stile di vita grigio e monotono della città e della società moderna. Concluse la serie Aida, commissionata al maestro per l’inaugurazione del Teatro dell’Opera del Cairo, dove fu rappresentata nel 1871.
Dopo gli studi presso l’Accademia di Belle Arti di Parma, dove aveva mostrato talento nel paesaggio e nel disegno, Pasini aveva iniziato la propria attività artistica realizzando serie di litografie – scene dal Trovatore e Trenta vedute di castelli in Lunigiana, nel Piacentino e nel Parmigiano – presso il laboratorio del celebre incisore Paolo Toschi. Dal 1852 a Parigi, il giovane Pasini collabora con l’incisore Eugène Ciceri, che lascia dopo due anni per tornare alla pittura presso l’atelier del paesaggista Théodore Chasseriau. È qui che un evento inatteso imprime un nuovo corso alla sua vita: Chasseriau rifiuta l’invito del Ministro Prosper Bourée a far parte di una missione diplomatica presso la corte dello Shah di Persia a Teheran, proponendo al proprio posto l’allievo Alberto Pasini, molto dotato nel disegno, colorista e paesaggista di buon livello.
A causa della guerra di Crimea, la missione partita da Parigi nel febbraio del 1855 dovette seguire un percorso lunghissimo, circumnavigando dall’Egitto la penisola araba fino ad approdare in un porto del Golfo Persico ai primi di maggio. Da qui, giunse finalmente a Teheran ai primi di luglio, dopo un viaggio di due mesi attraverso luoghi che testimoniavano lo splendore millenario della civiltà persiana: Shiraz, con i suoi magnifici giardini ricchi di fontane; Persepoli, con le rovine del palazzo di Dario, grandiose, sebbene ancora in gran parte sepolte; la monumentale tomba di Ciro il Grande a Pasargade; la straordinaria, immensa piazza Naqsh-e-Jahan, (“Modello del Mondo”) di Isfahan, voluta nel XVII secolo dallo Shah Abbas il Grande; la città santa di Qom, con il suo grandioso complesso di architetture religiose islamiche rivestite di maioliche multicolori; e soprattutto, la profonda e incolmabile solitudine dell’altopiano iranico – petroso e polveroso, in contrasto con le nevi perenni delle alte catene montuose sullo sfondo – che suscitò nell’animo del pittore “una malinconia non disgiunta da una sensazione di calma e di pace” e che sarebbe rimasto più di ogni altro luogo impresso nella sua mente, così come la rara vegetazione, che appariva ai suoi occhi “d’un verde d’uno splendore quale in Europa non possiamo avere idea (…) quel verde luce di bengala”.
A Pasini l’incontro con un mondo di fronte al quale le dimensioni europee apparivano quelle del “cortile di casa”, apparve come una rivelazione. A Teheran trascorse dieci mesi, durante i quali prese parte alla vita della corte, tra cerimonie fastose e caccie con il falcone; da questa esperienza riportò a Parigi una quantità enorme di materiale – taccuini di disegni, appunti, fotografie – che venne meditato e rielaborato in grandi dipinti a olio. La mostra presso la Fondazione Magnani-Rocca presenta la serie completa dei quaranta disegni realizzati in Persia, e quella delle dodici incisioni pubblicate su “L’Illustration, Journal Universel”, accanto ad alcuni tra i pochissimi dipinti di grandi dimensioni realizzati dall’artista.
Un nuovo, lungo viaggio intrapreso nel 1859 portò Pasini al Cairo e da lì, attraverso il Sinai, in Libano e ad Atene, tappa finale, da dove rientrò a Parigi. Il matrimonio celebrato l’anno seguente, i successi presso il pubblico parigino e la partecipazione a varie edizioni del Salon nel corso degli anni Sessanta, tennero impegnato l’artista tra Torino e Parigi finché, nell’autunno del 1867, decise di tornare in Oriente, imbarcandosi alla volta di Costantinopoli.
Davanti allo splendore delle cupole delle moschee che brillano nella luce marina del Bosforo, e agli “eleganti loro minareti che si direbbero messi lì per sostenere la volta del cielo“, Pasini sarà colto da una sorta di “Sindrome di Stendhal” ante litteram, che lo fa dubitare di essere all’altezza del compito, e riuscire a cogliere l’intimo spirito di una fra le più antiche capitali del mondo: “Saprò io interpretarla in modo mio proprio?”. Un dubbio che non toccava il suo mercante parigino Adolphe Goupil, che lo pressava per sfruttare le opportunità di un momento in cui i soggetti “turchi” erano tra i più richiesti dal mercato. A Costantinopoli, Pasini tornò nei due anni successivi e infine nel 1873; per il viaggio del 1869 scelse per la prima volta il treno, quello che sarebbe più tardi divenuto il celebre Orient Express – teatro di amori, delitti e intrecci di spionaggio – e che avrebbe contribuito ad alimentare il mito dell’Oriente misterioso.
Senza indulgere a compromessi verso la piacevolezza di un Oriente di maniera – identificato fin troppo spesso dai pittori dell’epoca con un’improbabile fantasmagoria di paccottiglia varia e femmine discinte – Pasini racconta la “sua” Costantinopoli: una città dove si perpetuano i rituali e le coreografie militari di un impero al tramonto e si muovono le folle cenciose e multicolori dei mercati, tra il fumo che si leva dagli spiedini messi ad arrostire lungo la via e la polvere sollevata dal passaggio di uomini e animali che si posa ovunque. Un mondo in cui convivono splendore e miseria, lusso raffinato e abbrutimento, a formare quella miscela d’intensa e prorompente vitalità che il pittore fissa più e più volte sulla tela – arriverà a dipingere oltre trenta versioni della Scena di mercato – nell’intento di trasmettere allo spettatore luci, colori ed emozioni di un Oriente che non lo abbandonerà mai, trasformato da entità geografica in un’intima dimensione dell’anima. E forse anche per Pasini come per il grande scrittore Guy de Maupassant, suo contemporaneo: “Il viaggio è una specie di porta attraverso la quale si esce dalla realtà per penetrare in una realtà inesplorata che assomiglia a un sogno”.
Didascalie immagini
- Jean-Auguste-Dominique Ingres, La grande odalisca, 1814, Parigi, Museo del Louvre (fonte)
- Eugène Delacroix, Donne di Algeri nei loro appartamenti, 1834, Parigi, Museo del Louvre (fonte) (https://it.wikipedia.org/wiki/Donne_di_Algeri_nei_loro_appartamenti)
- Alberto Pasini, Venezia, Rio San Trovaso, Collezione privata (fonte) http://spazioadarte.blogspot.it/2014/02/loriente-di-alberto-pasini.html
- Alberto Pasini, Rovine di Persepoli e La tomba di Ciro, disegni a matita su carta da Trentacinque disegni relativi al viaggio in Persia del 1855-1856, Collezione privata (si ringrazia ED Gallery, Piacenza)
- Alberto Pasini, Accampamento persiano, Collezione privata (si ringrazia Enrico Gallerie d’Arte, Milano-Genova)
- Alberto Pasini, La carovana dello Shah, Collezione privata
- Alberto Pasini, Davanti alla Moschea, Collezione privata (si ringrazia Galleria Bottegantica, Milano-Bologna) / Alberto Pasini, In attesa del Sultano, Collezione privata (si ringrazia Galleria Berman, Torino)
- Alberto Pasini, Mercato a Costantinopoli, Collezione privata
IN COPERTINA
Alberto Pasini, La carovana dello Shah, Collezione privata
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