Per molti di noi, che siamo appassionati e non storici dell’arte, l’amore per Tintoretto è direttamente proporzionale a quello per la sua città in quanto, per comprendere la portata della sua opera, è indispensabile conoscere bene gli spazi della Venezia con vicoli strettissimi e canali dove, spesso, in un breve spazio temporale, ci si muove dall’oscurità, alla luce, e di nuovo all’oscurità. Inoltre, all’universo femminile, balza immediatamente agli occhi, e stupisce, il modo provocatorio e originale con cui dipinse le donne.

Jacopo Giacomo Robusti – “minuto di corpo” noto con lo pseudonimo derivante dall’abilità nell’uso del colore acquista dal padre Battista, tintore di seta e lana – fu il primogenito, ma della madre non si conosce il nome, mentre, l’unico fratello al quale rimase legato, sembrerebbe essere stato Domenico.
Nacque a Venezia nel 1519 risultando, dall’atto di morte del 31 maggio 1594, indicato di settantacinque anni. Le informazioni sulla sua vita artistica, riportate dalle fonti, sono molte a iniziare dal fatto che già nel 1538 avesse una casa-bottega e fosse quindi indipendente.

Però, a parte qualche supplica e un biglietto al cardinale Ercole Gonzaga datato 9 maggio 1562, non esisterebbero lettere private e possiamo solo intuire che, da adolescente, possa aver frequentato entrambe le botteghe più importanti di quegli anni, vale a dire quella di Tiziano (forse cacciato dopo pochi giorni) e di Bonifacio de’ Pitati.

Complesso e contradittorio, irrequieto e caparbio, spinto dal fuoco di dover uscire dall’anonimato, disposto a tutto pur di aggiudicarsi una commissione nella determinata costruzione della propria carriera, scelse di contrapporsi allo stile e alle mode del tempo giungendo per primo a sfaldare la pennellata, a usare il “non finito”, imponendo prospettive diverse all’interno di uno stesso quadro.
Soluzioni inattese e audaci che, plasmando le esperienze di pittura, scultura e architettura, diedero vita a narrazioni complesse, potenza immaginativa, tratto espressionista, originalità assoluta con cui interpretò le iconografie tradizionali, sconcertando e scandalizzando nel suo osare troppo, per lo spazio visionario e senza ordine di lettura in cui cogliere quanto sta al di là dell’opera.

Vasari, di lui, scrisse: «Nelle cose della pittura stravagante, capriccioso, presto e risoluto, et il più terribile cervello che abbia avuto mai la pittura, come si può vedere in tutte le sue opere e ne’ componimenti delle storie, fantastiche e fatte da lui diversamente e fuori dell’uso degl’altri pittori».
Il “momento dipinto” di Jacopo non divise solo i contemporanei, ma anche la critica dei secoli successivi nonostante l’apprezzamento di Rubens ed El Greco. Emarginato dalle Accademie, devono trascorrere secoli perché possa piacere ad artisti come Max Beckmann, Jackson Pollock, Emilio Vedova. Paul Cézanne scrisse: “La sua opera è immensa include ogni cosa dalla natura morta fino a Dio; è un enorme arca di Noè; io mi sarei trasferito a Venezia soltanto per lui!”.

Selezionato al Fifa di Montrèal in Canada e al Beirut Art Film Festival, esce nelle principali sale cinematografiche italiane, da domani a mercoledì 13 aprile, il documentario biografico “Tintoretto. L’artista che uccise la pittura” diretto da Erminio Perocco con musiche di Carlo Raiteri e Teho Teardo, che conduce lo spettatore nella Venezia del Cinquecento rievocando le atmosfere di quel tempo, le luci della città vibrante sull’acqua e i colori dei preziosi pigmenti che giungevano nella Serenissima come in nessun altro luogo.

Inquadrando il contesto storico e politico, anche attraverso i contributi di importanti studiosi, il film prova a investigare modernità e spirito rivoluzionario di una artista geniale, carpendo i suoi pensieri, i segreti della tecnica, gli studi preparatori. La macchina da presa scava e scruta nelle sue opere drammatiche e travolgenti: quegli enormi teleri realizzati per gli edifici pubblici, scuole e chiese fino al Palazzo Ducale, il cuore del potere e del governo veneziano.

Come un regista cinematografico ante litteram, fu l’esperienza del teatro – dove aveva lavorato – che gli permise di trasporre in pittura l’azione scenica e la forza espressiva dei movimenti dei corpi – ben evidenziato nel documentario con fascinosi tableux vivant – Jacopo infranse le regole della pittura unendo la potenza del disegno di Michelangelo e la tavolozza di Tiziano ove, la dinamica della luce, attira dentro di sé lo spettatore coinvolgendolo come se partecipasse agli avvenimenti: il “primo poeta maledetto della storia” in un conflitto perenne con quello che gli altri vogliono e ciò che la sua sensibilità esige.
Jean Paul Sartre, per le tecniche narrative usate senza rompere le unità di spazio e di tempo, per riuscire a raccontare il prima e il dopo dell’unico istante che poteva rappresentare, lo definì “il primo regista cinematografico“.

Dal drammatico e rivoluzionario San Marco libera lo schiavo del 1548 alla Presentazione della Vergine al Tempio (1551 – 1556) realizzata per la Madonna dell’Orto; dalla monumentale Crocefissione (1565) della Scuola Grande di San Rocco alla strabiliante e gigantesca tela con il Paradiso (1588) per la Sala del Maggior Consiglio nel Palazzo del Doge.

Al termine del documentario appare facilmente comprensibile la modernità di quelle pennellate – tra le più rivoluzionarie della storia dell’arte – e come possano essere state fonte di di ispirazione per gli impressionisti e per tanti artisti del Secolo scorso.