Era il 1949, in un Italia che si stava ancora leccando le ferite della guerra e del dopoguerra, quando il 1° aprile apparve sugli schermi il film “Riso amaro” di Giuseppe De Santis. Il regista, di ritorno da Parigi dove aveva presentato il suo film “Caccia tragica”, alla stazione di Torino, in attesa della coincidenza per Roma, fu attratto dai canti provenienti da un vagone vicino al suo: quello delle mondine in partenza per la monda del riso. Canti antichi, ora tristi, ora allegri che risuonavano così: “O cara mamma vienimi incontra / che ho tante cose da raccontare / che nel parlare mi fan tremare / la brutta vita che ho passà / La brutta vita che ho passato / là sul trapianto e nella monda / la mia bella faccia rotonda / come prima non la vedrai più / Alla mattina quei moscerini / che ci succhiavano tutto quel sangue / e a mezzogiorno quel brutto sole / che ci faceva abbrustolir / a mezzogiorno fagioli e riso / e alla sera riso e fagioli / e quel pane non naturale / che l’appetito ci fa mancar / E alle nove la ritirata / e alle dieci c’è l’ispezione / l’ispezione del padrone / tutte in branda a riposar1 
Erano voci di donne che da secoli, sempre negli stessi luoghi, nella stessa stagione, ripetevano come nella canzone i gesti della loro eterna fatica, indispensabile per la coltura del riso, indispensabile per sfamare le loro famiglie, ora più che mai. Da qui, l’idea di un film che, girato nell’acqua stagnante di una risaia, raccontasse una storia, al contrario, tumultuosa, una specie di dramma nazionalpopolare, con le tinte forti della passione, ma anche con i problemi dell’Italia di quegli anni, come miseria, fame, furti, lavoro disumano, sfruttamento.

La trama, dunque, mescolava un po’ di drammone ottocentesco, un po’ di Grand Hotel, fotoromanzo allora in voga: i buoni, i cattivi, il furto di un gioiello, la follia d’amore, sesso e gelosia, il colpo di pistola finale. Come da copione, il trionfo del bene sul male. Tutto, però, guardato, indagato dall’occhio nitido, sincero, crudelmente autentico del Neorealismo illuminato delle interpretazioni di giovani attori-rivelazione: Silvana Mangano, Vittorio Gassman, Raf Vallone giornalista rubato all’Unità e collocato in una inattesa, insolita ambientazione dagli effetti straordinari, come una risaia del Vercellese. La vicenda del film parte dal furto di una collana preziosa (finta!) perpetrato in un grande albergo da Francesca (Doris Dowling), una cameriera e da Walter, bellissimo ladro senza scrupoli (Vittorio Gassman) suo complice.

La coppia, per fortuite coincidenze, finirà nell’ambiente delle mondine. Anche qui Walter, usando il suo pernicioso appeal sulle donne della risaia, susciterà gelosie, scatenerà risse e violenza. Il gesto estremo ed eroico di una di queste, Silvana (Silvana Mangano) omicida e suicida poi, farà raggiungere alla trama, toni e pathos che paiono alludere alla tragedia greca. Ma, come sempre, ci saranno i buoni, come Marco, il sergente cavalleresco generoso (Raf Vallone). Alla fine, anche il furto del riso, bene prezioso, organizzato dal cattivo, senza cuore e scrupoli non avverrà, così come si sventerà l’allagamento della risaia e il riso delle mondine sarà salvo. Probabilmente questo film se non avesse avuto come vera e grande protagonista la risaia, non avrebbe avuto storia. In quel mondo quasi irreale, cielo, acqua, terra, anime, persone diventano una sola cosa, nello sguardo del regista e quindi dello spettatore. Le scene di insieme, in cui file di donne senza volto, sotto cappelli di paglia tutti uguali, che si muovono ritmicamente, tutte insieme in file parallele, piegate nella melma, intente a piantare il riso, sotto il sole cocente o la pioggia battente, sotto lo sguardo ferreo del caporale, parlano più di mille saggi socioeconomici su quel tema.

Con “Riso amaro”, grazie alla geniale scelta della risaia e delle sue mondine, De Santis riuscì a realizzare un documento più corale, autentico, sociologicamente esatto, più ricco di immagini e significati per raccontare uno spaccato della società italiana a cavallo degli anni ’50. In quell’apparentemente anonimo acquitrinio di sentimenti e individui, piegati dal destino e dalla coltura del riso, in cui il regista immerge i suoi personaggi, si leva come una statua classica, in tutta la sua bellezza fiera e prorompente, la figura di Silvana Mangano, mondina sicura della sua forza catalizzante, nel bene e nel male, che strega intorno a sé un groviglio violento di gelosie, rivalità e invidie, ma anche umana pietà, compassione e sincerità. Silvana Mangano, giovanissima, con questa interpretazione entra nella mitologia della celluloide, diventando simbolo del sex appeal all’italiana, in risposta a quello USA di Rita Hayworth. La risaia non le fa solo da sfondo, ma diventa parte integrante del suo personaggio in tutte le sue sfumature.

Senza la risaia, la calza nera smagliata sulla lunga gamba inguainata negli shorts, emergenti dall’acqua melmosa, non avrebbe lo stesso conturbante significato. Così come lo sguardo malizioso ed ammiccante sotto il cappello di paglia, pieno di allusioni, si perderebbe nel vuoto. Infine il suo sfrenato boogie-woogie, alla festa del riso, non risulterebbe altrettanto sensuale e premonitore di sventure, se l’ambiente della risaia non fosse carico della tensione, della dura fatica, del sudore, dell’abbrutimento, del pesante lavoro. Alla fine, quando il sogno di una vita bella e ricca col maliardo traditore sarà svanito, con la delusione e il colpo di pistola, alla mondina assassina non resterà che un redentore volo suicida dall’alto della torre di legno costruita per la festa di fine monda. Sulla risaia aleggia, allora, uno sgomento corale che diventa palpabile sulle immagini di uno straordinario bianco e nero, dalle infinite sfumature e nell’emozionante colonna sonora (che riecheggia i canti delle mondine ascoltate sul treno per Torino). Come in un arcano rito pagano di devozione, il corpo esanime di Silvana viene ricoperto col riso sparso, con gesti pietosi, di quelle mani, ora misericordiose, che per questo, hanno tanto duramente faticato e sofferto.

Questa immagine forte e drammatica entra subito nei cuori e rimane fissa nell’immaginario collettivo, concludendo una storia ed un’opera cinematografica che in America ebbe più successo del “Paisà” di Roberto Rossellini e di “Sciuscià” di Vittorio De Sica. Candidato all’Oscar nel 1951 per il miglior soggetto, questo film, fu tra quelli che, per tematiche, profondità di significati ed immagini, portò il cinema italiano ai vertici della considerazione internazionale. “Riso amaro” è stato inserito nelle cento pellicole italiane “da salvare” per il contributo alla memoria collettiva della storia del nostro Paese.

Note

1 Dal libro Il secolo delle donne. L’Italia del Novecento al femminile di Elena Doni e Manuela Fugenzi – Editori Laterza

Didascalie immagini

  1. Locandina italiana
  2. Vittorio Gassman e Silvana Mangano
  3. Silvana Mangano con Raf Vallone
  4. Foto pubblicitarie del film
  5. Silvana Mangano tra le mondine
  6. Silvana Mangano e Doris Dowling

IN COPERTINA
Silvana Mangano nelle risaie in Riso amaro di Giuseppe De Santis