Aperta dal 13 aprile alle Scuderie del Quirinale l’esposizione “Da Caravaggio a Bernini. Capolavori del Seicento italiano nelle Collezioni Reali di Spagna”. 60 opere di Patrimonio Nacional, pubblica istituzione impegnata nella tutela e nella valorizzazione del patrimonio artistico nella disponibilità della Corona spagnola, sono coerentemente organizzate in una mostra curata da Gonzalo RedínMichause.
Il progetto intende rivelare, mediante la selezione di capolavori d’arte, gli intricati legami politici e culturali esistenti tra Italia e Spagna nel XVII secolo, durante cui viene rilanciata la tradizione del collezionismo spagnolo di arte italiana, già avviata nel ʼ500 con Carlo V.
Gli Stati italiani, precisa RedínMichause, impiegano le opere come forme di captatio benevolentiae nei confronti dei sovrani di Spagna e ne è esempio la Conversione di Saulo di Guido Reni, donata a Filippo IV per garantire la protezione del piccolo Stato di Piombino; altre opere, come il Cristo crocifisso di Bernini (proveniente dal Monastero di San Lorenzo dell’Escorial e raramente accessibile al pubblico), vengono commissionate dagli emissari del re in Italia. L’importazione si svolge tramite la mediazione di influenti autorità, o è diretta nel caso di ambasciatori e viceré e determina l’afflusso graduale verso le collezioni reali: la Salomè con la testa del Battista di Caravaggio e altre opere ancora, infatti, vengono acquistate dai rappresentanti della monarchia spagnola in Italia e alla loro morte vanno ad accrescere le collezioni del re. Frequenti inoltre i viaggi compiuti in Italia da parte di noti maestri iberici del momento come José de Ribera, che infatti trascorre interamente a Napoli la sua vita, e come Diego Velázquez, che trae ispirazione dal soggiorno in Italia per elaborare il suo linguaggio artistico. RedínMichause ricorda anche la lunga presenza nella corte madrilena (sino ad arrivare all’inizio del ʼ700) del napoletano Luca Giordano nonché l’operato del parmense Giovanni Lanfranco, le cui opere tra il 1630 e il 1640 decorano il palazzo del Buon Retiro di Filippo IV insieme a quelle di altri artisti attivi a Madrid.
Tali scambi, dunque, contribuiscono a dettare un gusto e a far nascere persino una scuola nazionale, che con Velázquez assume un ruolo di eccellenza nella storia dell’arte europea; e a scandire le vicende e gli sviluppi seicenteschi dell’arte tra classicismo, naturalismo e barocco, sono innegabilmente Caravaggio e Bernini.
L’esposizione rivela le distanze tra il naturalismo dell’arte caravaggesca, che vuole rappresentare il visibile così come appare, e l’arte di maniera, affettata e artificiosa, come quella della pittrice Fede Galizia (sebbene anch’ella condivida il carattere naturalistico delle rappresentazioni lombarde). Se Galizia adotta i modi convenzionali del tardo manierismo, dispensa un decorativismo fatto di broccati, ori e gemme e si distanzia dal vero, la storia di Salomè di Caravaggio è resa in modo verosimile, crudo e diretto: il forte contrasto chiaroscurale esalta le figure e il carattere drammatico dell’episodio biblico, raccontato dal pittore così come avrebbe potuto essersi effettivamente svolto. Inoltre l’eccellente qualità pittorica è stata valorizzata tramite un restauro.
Credibile, viva e contemporanea la pittura caravaggesca ma più ideale quella di Guido Reni, come notiamo nelle sua giovane Santa Caterina da Siena, che rimanda alle fonti della scultura antica e di Raffaello per selezionare del reale ciò che più rispecchia l’ “idea del bello” ma al contempo si tinge di un drammatico chiaroscuro di stampo caravaggesco. Anche Guido Reni, nota il curatore, applica la sua “idea del bello”, moderando dunque l’estremo naturalismo caravaggesco: la Conversione di Saulo del bolognese può essere confrontata con le due opere con lo stesso tema che Caravaggio ha dipinto per la cappella Cerasi a Roma. Si noti la composizione originale, snodantesi attraverso la curva disegnata dal corpo in torsione (dalla posa poco “classica”) e culminante nel muso del cavallo rivolto verso la luce divina. Come quest’opera anche Lot e le figlie di Guercino viene scelta da Filippo IV tra le altre della collezione del Principe di Piombino, Niccolò Ludovisi, per volere testamentario di quest’ultimo; la tela di Guercino rivela gli influssi di luce e colore della pittura veneta, esaltati da un restauro recente.
Sicuramente i frutti della scuola napoletana, nota il curatore, sono quelli prevalenti nelle collezioni del Patrimonio Nacional, poiché la Spagna ha governato il territorio napoletano per due secoli. La pittura del luogo è stata influenzata dai due soggiorni a Napoli di Caravaggio, nonostante la loro brevità; infatti José de Ribera, principale esponente della scuola (attivo a Napoli probabilmente dal 1616), ha conosciuto l’opera di Caravaggio a Roma, dove lo spagnolo risiede da quindicenne. Il realismo di San Gerolamo penitente ricorda quello caravaggesco e il suo cielo luminoso viene riproposto anche in San Francesco d’Assisi riceve le stimmate, in cui il paesaggio è preponderante, nonché nelle tele in pendant del napoletano Domenico Gargiulo, altri validi esempi della ricchezza eterogenea della scuola napoletana. Tornando a de Ribera: particolari fortemente verosimili si notano anche in Giacobbe e il gregge di Labano (emblematica la limpidezza del ruscello), la cui gamma luminosa e cromatica, inoltre, discende dalla corrente neoveneziana che influenza il pittore dal 1632. Altro capolavoro di Ribera, ricorda RedínMichause, è San Francesco si getta in un rovo di spine, in cui emerge il volto intensamente espressivo del santo, sorpreso dall’angelo apparso nella tenue luce crepuscolare. “Lo Spagnoletto”, com’è soprannominato l’artista nell’ambiente partenopeo, non si esime dalla realizzazione di ritratti ufficiali, come dimostra la raffigurazione equestre di don Giovanni d’Austria, figlio naturale di Filippo IV e viceré di Napoli dopo la repressione della rivolta di Masaniello.
All’opera di Ribera a Napoli si ispira il dipinto Lot e la sua famiglia del siciliano Pietro Novelli, che però guarda anche ai dipinti che il fiammingo Antoon Van Dyck ha realizzato a Palermo. Principale rivale di Ribera è invece Massimo Stanzione, di cui ammiriamo il maestoso dipinto I sette arcangeli, legato a un culto molto diffuso nell’Italia meridionale, in Spagna e nell’America del Sud.
Altro capolavoro in mostra è La tunica di Giuseppe di Velázquez, collocata nel 1634 accanto alla Fucina di Vulcano nel palazzo madrileno del Buen Retiro. Le due opere sono state dipinte poco dopo il rientro dal viaggio in Italia, tra il 1629 e il 1631, che ha impresso segni indelebili nell’arte del sivigliano: novità narrative e formali si dipanano dallo studio dei dipinti caravaggeschi e degli artisti della scuola bolognese. Di un’accuratezza mirabile, infatti, le evidenze anatomiche dei personaggi della Tunica, le cui azioni ed espressioni sono dinamiche e instabili; vivaci gli effetti chiaroscurali (soprattutto nel lato sinistro dell’opera). Durante il secondo viaggio, tra il 1649 e il 1650, Velázquez trionfa come ritrattista alla corte pontificia. Altri artisti stranieri, peraltro, operano a Roma, come il francese Charles Le Brun, di cui ammiriamo quel Cristo morto compianto da due angeli, dalla carne verace, che giace naturalmente dinanzi ai volti mesti e contriti delle due tenere creature celesti; probabilmente Le Brun ha avuto modo di ammirare la Pietà Farnese di Annibale Carracci. RedínMichause ci informa che anche Giovan Francesco Romanelli, allievo di Piero da Cortona, è affascinato da Roma; egli, guardando a Raffaello, stempera le componenti barocche più eccedenti, come si nota osservando la sua composta e quieta Deposizione, in cui Maria, anziché svenire come in tante altre rappresentazioni dagli inizi del ʼ500, neanche piange dinanzi al figlio defunto. L’opera compare in Spagna nel ʼ900 ma fino all’inizio del secolo precedente fa parte di un altare della chiesa romana di Sant’Ambrogio della Massima, realizzato da Bernini, che infatti sostiene l’attività di Romanelli.
A proposito di Bernini sappiamo che papa Innocenzo X, appena salito al soglio, fa a meno di lui poiché autore di progetti artistici e di propaganda del suo antecessore; eppure non riesce a resistere alla proposta che il maestro suggerisce sulla Fontana dei quattro fiumi, di cui la riproduzione in mostra giunge presto anche alla corte spagnola. Inoltre il Cristo crocifisso di Bernini, in bronzo, viene acquistato dall’ambasciatore spagnolo a Roma per essere inviato a Filippo IV e collocato nel pantheon reale dell’Escorial. Il curatore ci informa che si tratta dell’unica figura completa in metallo realizzata da Bernini, giunta fino a noi e che non sia collegata a un complesso monumentale. È anche l’unica opera che l’artista abbia ritenuto inadeguata alla sua destinazione, tanto da far sì che venisse sostituita dal più mediocre crocifisso di Domenico Guidi. In avorio è invece il crocifisso scolpito in Italia dal tedesco Georg Petel, probabilmente intorno al 1620; esso ricorda i tipi sviluppati dagli amici Van Dyck e Rubens e mostra una vitalità già pienamente barocca. Più idealizzata, manierista e placida la figura del bronzetto del Giambologna, uno dei più noti scultori in Italia nella seconda metà del ʼ500.
Scultore preferito di Innocenzo X è il bolognese Alessandro Algardi, autore dell’imponente pala marmorea dell’altare di Leone I nella basilica di San Pietro o delle sculture di Nettuno e Cibele, commissionate da Velázquez durante il secondo viaggio in Italia (1640-1651); esse furono collocate, seppur piccole, in una fontana del palazzo di Aranjuez di Madrid anziché nel Salón de espejos dell’Alcázar per cui erano destinate, quasi fossero troppo sofisticate per la corte madrilena, come ipotizza il curatore.
Per quanto concerne la scultura, il toscano Giovanni Battista Foggini propone uno sfavillante rilievo in bronzo con lapislazzuli e con una cornice sfarzosa che richiama decorativamente l’avvicendarsi del ʼ700.
Grazie alla mostra romana conosciamo meglio anche la Collezione Maratti, costituita da 124 dipinti appartenuti alla poetessa Faustina Maratti (figlia del pittore Carlo) e acquistati a Roma nel 1722. Le opere dovevano giungere al palazzo della Granja de San Ildefonso, all’epoca in costruzione per i nuovi sovrani spagnoli Filippo V ed Elisabetta Farnese. Esse incarnavano l’idea del classicismo sostenuta da Giovanni Pietro Bellori in un discorso tenuto all’Accademia romana di San Luca nel 1664: lo storico dell’arte suggeriva all’artista di rifarsi ai maestri antichi selezionando le componenti migliori della natura, per giungere a un’idea di bellezza perfetta che negasse il solo uso manierista della fantasia quanto l’estremo realismo caravaggesco. Il discorso costituisce la prefazione alle belloriane Vite de’ pittori, scultori et architetti moderni, in cui viene citato l’amico Carlo Maratti, esponente di una tradizione classicista. Dalla collezione Maratti proviene ad esempio Lucrezia si dà la morte, parte di una serie dedicata alle donne più “forti” dell’antichità; qui riscontriamo il connubio tra classicismo e barocco, così come nel monumentale busto della regina Cristina di Svezia e nelle sculture di Semiramide e Pentesilea, le due regine protagoniste della “querelle de femmes” che si apre dal XIV secolo sul ruolo sociale della donna. Le due effigi sono realizzate dall’austriaco Johann Bernhard Fischer von Erlach, che intorno al 1680 lavora per uno dei principali collezionisti spagnoli del momento, il sesto marchese del Carpio.
Opere molto amate in Spagna e presenti nelle collezioni spagnole sono quelle dell’italiano Andrea Vaccaro, che cattura per l’eleganza derivante dall’incrocio tra naturalismo partenopeo e moderazione alla Guido Reni; si noti infatti il sentimentale Riposo durante la fuga in Egitto. Ma l’artista più apprezzato nella corte spagnola nella seconda metà del ʼ600 è il già citato Luca Giordano, soprannominato “Luca fa presto” perché straordinariamente rapido nel dipingere; egli è scelto per dare lustro al regno di Carlo II, che deve competere con i regni degli antecessori, resi gloriosi da Tiziano e Rubens. Giordano vi opera per dieci anni a partire dal 1692, assicurando con successo la continuità auspicata dal sovrano; con l’Ebbrezza di Noè e L’asina di Balaam imita e rivisita in senso barocco l’opera di José de Ribera, di cui è mutuata l’aderenza ai dettagli naturali. La Cattura di Cristo mostra l’assimilazione delle grandi lezioni pittoriche veneziane e degli ideatori del barocco, come Lanfranco e Bernini.
Di Francesco Solimena, successore di Giordano come esponente principale della scuola napoletana, i due dipinti che chiudono la mostra, realizzati in pieno ʼ700 e appartenuti a Elisabetta Farnese, moglie del re Filippo V di Borbone: è l’inizio di un nuovo secolo e una nuova dinastia. Lo rappresenta Mater dolorosa, dal volto grigiastro eppure dalla luce accecante, denso di pathos, e con le vesti dalla consistenza marmorea: l’”espressivismo” sembra cedere il passo a quel naturalismo più volte menzionato a proposito del secolo trascorso.