Tra i borghi più antichi immersi nel territorio di Salerno, collocato nei pressi del Parco Naturale del Cilento, l’area di Castellabate fu abitata dai longobardi prima, e dai normanni poi. La presenza normanna coincise con una vasta opera di bonifica delle terre effettuata dai monaci benedettini della Abbazia di Cava dei Tirreni, per difendere la popolazione locale dalle scorrerie dei saraceni insediatisi nella vicina Agropoli.
L’abate Costabile Gentilcore, divenuto in seguito Santo, fece costruire una poderosa fortezza attorno alla quale si sviluppò l’attuale abitato. Proprio dal Castello – iniziato nel 1123 – deriva il nome attuale del comune (Castrum Abbatis). Sotto la valida protezione della fortezza e grazie al porto, gli abitanti dell’area poterono prosperare al punto da far diventare Castellabate la più ricca baronia del Cilento. Durante il risorgimento spicca il contributo di partecipazione ai moti del 1848.
Ancora oggi domina il Castello dell’Abate – che offre una serie di scorci mozzafiato – sede delle attività culturali della Fondazione Pio Alferano e Virginia Ippolito che, anche quest’anno, promuove il Premio Pio Alferano dedicato a grandi nomi dell’arte e della cultura italiana. Presieduta da Santino Carta, con Vittorio Sgarbi Direttore artistico, la Fondazione organizza una serie di mostre con il titolo comune La commedia dell’arte dal nome della serie a cui appartiene il prezioso arazzo esposto per tali occasioni.
La scelta di tale titolo espime la convinzione che i differenti modi di concepire l’arte, e di metterla in pratica, abbiano comunque l’obbligo di riconoscersi in un’aderenza alla vita in tutti i suoi aspetti, dai più frivoli ai più seri, dai più distensivi ai più inquietanti, stabilendo con essa una piena continuità in cui riflessioni, motivazioni e propositi condividano degli stessi obiettivi di massima.
Attualmento sono allestite (fino al 6 gennaio 2025) quattro mostre di cui le tre monografiche:
– Agostino Arrivabene a cura di Sara Pallavicini
Abilissimo nel far rivivere, con capacità quasi medianiche, il gusto più spettrale del primo Romanticismo all’interno del quale riserva un ossequio tutto speciale al visionarismo misticheggiante di William Blake, Arrivabene attraversa le mitografie del demoniaco – fra di esse anche un doppio caprone tridimensionale a corpo unico, per la gente di Castellabate probabile evocazione di leggende legate a San Costabile – lungo un crinale continuo fra passato e presente sulle ali di un fascino antico, quello dell’orrido, che non smette di suggestionare. Una pittura sulfurea e ansiogena, la sua, condizionata da un pessimismo cosmico che però concede spazio anche alla redenzione, quando nell’elevazione dello spirito l’uomo riesce a scorgere la ragione del proprio riscatto esistenziale.
– Enrico Robusti a cura di Rebecca Delmenico
E’ la spiazzante constatazione della precarietà, l’impossibilità di riconoscere un centro di gravità morale che sia valido per l’intero genere umano, il filo rosso che accomuna le nove opere di grandi dimensioni che Enrico Robusti – fautore eccellente di una figurazione ridondante e caustica in cui l’eredità del Barocco trova un’originale congiunzione con l’Espressionismo tedesco – presenta a Castellabate per proporre attraverso di esse “una sosta di meditazione sulla nostra situazione esistenziale”, come afferma lo stesso autore, “ora suscitando qualche sorriso, ora cupi scoramenti”. Contraddistinti dal ricorso ad anatomie stravolte ed agitate da impulsi spesso perversi, punti di vista anomali, senso dell’horror vacui che tutto risucchia implacabilmente, i dipinti di Robusti espongono una condizione moderna troppo disperata e disperante per non ispirare in chi guarda esorcistico sarcasmo, instaurando un efficace dialogo anche con i motivi creati dall’artista Edi Rama, attuale primo ministro albanese, nell’adattamento della sala operato in occasione del Premio Alferano 2018
– Antonella Cappuccio a cura di Fabio Canessa
“Dare corpo ai sogni… accarezzarli, sentirne il profumo, dialogare con infantile e ironica leggerezza con i protagonisti, giocare con l’immaginario simbolico del contenuto di famosissime opere d’arte di grandi artisti” è quanto si propone l’artista. Un passato da costumista e scenografa per cinema, teatro e televisione, madre di Gabriele e Silvio Muccino, con i suoi “teatrini” e specchi ondulati, creazioni a base di materie non canoniche che rivoltano come guanti gli universi espressivi di celebri capolavori dell’arte, della letteratura e del cinema quali, fra gli altri, l’Annunciazione di Botticelli, la Madonna del Parto di Piero della Francesca, Il Circo di Seurat, il Candido di Voltaire, Il barone rampante di Calvino, L’opera da tre soldi di Brecht, Blow-up di Antonioni, La strada e il Casanova di Fellini, per scorgere nello sgretolamento dei loro costrutti logici ed estetici nuovi motivi di interesse sui quali un’anima bambina come quella dei più sensibili fra noi riesce a imbastire occasioni ripetute di piacere.
La quarta mostra, “Opere dalla collezione Parenza Angeli“, curata da Massimo Pirondini con testi di Francesco Petrucci, presenta per la prima volta al pubblico la sezione di una ventina di opere del collezionista romano Roberto Parenza Angeli, erede della passione già sviluppata dai genitori Gian Franco e Anna Maria.
Fra certe e attribuite, la raccolta, annovera autori quali di Andrea del Sarto, Antonello Gagini, Annibale Carracci, Guido Reni, Guercino, Jusepe de Ribera, Carlo Saraceni, Carlo Maratta, Vincenzo Camuccini, Ippolito Caffi, Gustave Courbet. Tutte di indubbio interesse, mai viste prima e non solo in Cilento.