“Salomè, danza per me! Se tu danzerai per me, potrai chiedermi quello che vorrai, e io te lo darò”
La lussuria e la noia spingono Erode a questa fatale promessa. Peccato che alla principessa ebrea non interessino smeraldi, topazi e pietre preziose. Interessa solo il profeta Jochanaan chiuso in una cisterna. Lo stesso Jochanaan che l’ha rifiutata con disprezzo. Salomè approfitta della proposta del patrigno e chiede la testa di Jochanaan. Solo a questo punto riuscirà a baciarne le labbra, coperte di sangue.
L’adattamento di Salomè, dramma scandaloso e sconvolgente di Oscar Wilde, lanciò definitivamente Strauss nel firmamento operistico. Mai prima, e mai più in seguito, Strauss scelse un linguaggio musicale così radicale. Il risultato è un impasto potente di amore ossessivo, necrofilia, sensualità perversa e ironia macabra. Salomè divenne subito un pilastro del repertorio operistico.

Nella nuova produzione della Oper Mainz, firmata dal regista Alexander Nerlich, Salomè è ben lontana dal cliché della femme fatale che spesso le viene cucito addosso. La principessa di Galilea, cresciuta in una famiglia disfunzionale e in un ambiente depravato in cui la soddisfazione di ogni vizio sembra la sola regola, è disegnata come una giovane donna con molteplici personalità. Salomè vive costantemente circondata dal fantasma del suo passato infantile e da un altro sdoppiamento che incarna i suoi tratti mostruosi. Questo lato oscuro della personalità è portato in scena con grande espressività da Danique de Bont. La ballerina olandese, alla vista è un ibrido fra certe litografie di Albrecht Dürer e lo zio Tibia (Uncle Creepy nell’originale americano) dei fumetti inizio anni Settanta, è una delle mattatrici della serata e alla fine sarà salutata da fervidi applausi. La creatura uccide perfino lo sventurato Narraboth, che nell’originale si toglie la vita non sopportando la vista di Salomè che spasima per il profeta. Si può anche immaginare che Jochanaan attragga questa Salomè dissociata perché le offre qualcosa che non trova nel suo mondo: forza e stabilità.
Lo scenografo Wolfgang Menardi colloca l’atto unico in una grande casa delle bambole, meglio una casa degli orrori, in cui vive una comunità chiusa e isolata. Un buio quasi costante la avvolge, tagliato solo dalle luci disegnate da Frederik Wollek. In questa ambientazione, che fa venire alla mente i racconti più cupi di Edgar Allan Poe, la danza dei sette veli diventa una scena collettiva, una via di mezzo fra un rituale macabro e una serie di allucinazioni perverse, dove la “creatura” spadroneggia. Una nota più distesa viene dai costumi di Zana Bosnjak che non fanno economia di colori. Basti dire che le tre incarnazioni di Salomè sono caratterizzate dal nero (il lato oscuro), dal rosso (la passione) e dal bianco (la purezza). Molto colorati anche i cinque ebrei che dibattono sulla natura del profeta.

In definitiva lo spettacolo creato da Alexander Nerlich e dal suo team è piuttosto radicale, a tratti sovraccarico di significati, ma ha profondità psicologica e una sua coerenza estetica.
Daniela Köhler brilla al centro dell’ensemble nel ruolo della principessa adolescente, con voce solida di soprano drammatico e recitazione espressiva. La riascolteremo in estate a Bayreuth e il suo finale in Salomè già assomigliava a un Liebestod. Ieratico e invasato lo Jochanaan di Derrick Ballard, un vero profeta. Voce scura e tuonante, offre una prova di forza in cui qualche sfumatura più elusiva non avrebbe forse guastato. Alexander Spemann restituisce con bel timbro tenorile gli accenti di un Erode allucinato e consumato dalla vita. Bisbetica e stizzosa l’Erodiade del mezzosoprano Niina Keitel. Il tenore Myungin è un Narraboth piuttosto ambiguo (ma chi non lo è in questo spettacolo) e di bel colore vocale. Hermann Bäumer guida la Philharmonische Staatsorchester Mainz in un’interpretazione lucida ed equilibrata del sontuoso spartito straussiano, con il giusto accento sui passaggi più ambigui e tenebrosi.
Teatro gremito in ogni ordine e calorosi applausi finali per tutti i protagonisti della serata.